Luca Di Leonforte23 ottobre 2013
È facile parlare di un artista a più di vent’anni dalla sua morte, quando tanto, forse troppo, si è detto di lui. Soprattutto quando c’è stato tutto il tempo necessario per poter assimilare, analizzare e capire le sue creazioni. Ed è proprio con il passare del tempo che gli artisti vengono classificati: l’appartenenza di un poeta al Romanticismo o di un pittore all’Impressionismo sono in genere solo catalogazioni postume. Di Rino Gaetano tanto si è detto e tanto rimane da dire, ma difficile, se non impossibile, risulta una sua catalogazione. Di lui si dice in genere che sia stato un cantautore, facendolo rientrare in quell’infinito e indefinito genere musicale chiamato “cantautorato”. Ma per fare del cantautorato basta interpretare brani che uno si è scritto e musicato da solo; essere un cantautore, quindi, non è una vera classificazione: e come potrebbe esserlo dato che rientrerebbero nella stessa categoria Paolo Meneguzzi e Fabrizio De André, Lady Gaga e Bob Dylan? Le difficoltà di collocazione di Rino Gaetano vengono estremamente esasperate se si pensa che in vita spesso non veniva nemmeno considerato un artista degno di nota. Nel 1978, ospite ad Acquario, programma condotto da Maurizio Costanzo, insieme a Susanna Agnelli per parlare di Nuntereggae più (sia la Agnelli che Costanzo sono citati nella canzone), Gaetano veniva così presentato: «Un autore di canzoncine ironiche, scherzose e scanzonate, che, vista la sua passione di fare elenchi, si dedicherà presto a mettere in musica forse le Pagine Gialle». Ecco cosa, invece, lo stesso Maurizio Costanzo ha detto nel 2010: «Dico subito che Rino Gaetano era un artista e aggiungo: non si può tranquillamente dire di tutti. Era un artista, con tutte le fragilità degli artisti, con la presenza e la voglia spesso di provocare. Nuntereggae più, più che una canzone, è un manifesto, un coro di protesta». Da autore di canzoncine ironiche ad artista provocatore, dunque. E Nuntereggae più, che prima era un semplice elenco assimilabile culturalmente alle Pagine Gialle, diventa addirittura un “manifesto”.
Il radicale cambiamento d’opinione potrebbe però essere “colpa” dello stesso Rino Gaetano: così diverso, così originale, non riconducibile a nessun altro artista o genere. Diceva di lui Lucio Dalla, non certo un conformista: «Credo che nella categoria, diciamo, “cantautori” fosse quello più anomalo rispetto alla regola». Rino Gaetano era lontano dalla ricercatezza di Franco Battiato o dall’eleganza di Francesco De Gregori. Non aveva l’impostazione di Tenco e De André o la cultura di Guccini e Vecchioni. Lui era l’altro modo di essere cantautore, un modo tutto suo. Forzando le cose si potrebbe accostare la sua scrittura grezza e il suo modo di fare poco ortodosso ai versi graffianti e all’aspetto rozzo proprio di Lucio Dalla, ma l’accostamento è solo superficiale. L’unico a lui assimilabile è Enzo Jannacci. Proprio Rino Gaetano diceva di lui: «è un gran poeta, non so se mi abbia influenzato direttamente, personalmente mi sento molto vicino al suo feeling». Jannacci, però, risulta essere più maturo di Rino Gaetano, forse per la frequentazione di gente come Dario Fo e Giorgio Gaber: insomma Jannacci ha l’aria dell’intellettuale surreale, Gaetano in quegli anni appare, ai più, solo surreale. C’è da dire poi che il modo di essere cantautore di Rino Gaetano è tutto italiano, non ha riferimenti musicali stranieri, almeno non evidenti. È noto però che il ragazzo nato a Crotone ascoltasse molta musica straniera. Sulla sua auto il giorno della morte venne trovato un libro di partiture musicali dei Beatles. Inoltre, una canzone inedita dal titolo Ciao Charlie termina con una serie di saluti ai suoi miti musicali, tutti stranieri: «Ciao Jimi, ciao Bob, ciao Paul, ciao John, ciao Otis» (superfluo specificare a chi si riferisse!). La pensa così Ernesto Bassignano, uno dei “quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla” di Venditti e amico di Rino Gaetano: «C’erano Baglioni e Cocciante da una parte che erano i melensi, c’era Battisti che nessuno di noi valutava granché, c’era chi come me si rifaceva alla Francia e a Tenco, chi si rifaceva a Dylan e chi come Antonello (Venditti NdR) si rifaceva a Elton John e alla musica inglese. Rino è stato veramente il più italiano perché non si rifaceva a niente e a nessuno».
Risulta, quindi, essere un “figlio unico” della canzone italiana. Un “figlio unico” per la sua normalità che risultava essere dissacrante. Proprio come nella canzone, «Mio fratello è figlio unico / perché è convinto che anche chi non legge Freud / può vivere cent’anni / perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati / malpagati e frustrati», nella quale essere “figlio unico” significa essere ingenuamente normali, Gaetano è “figlio unico” perché non gioca a fare l’intellettuale, non si crede portatore di verità assolute. Lui stesso specificava di ispirarsi per le sue canzoni «ai discorsi che si possono fare sul tram, in mezzo alla gente, dove ti rendi conto dell’andazzo sociale» e ci teneva a specificare: «non voglio dare insegnamenti, voglio solo fare il cronista». Ed è proprio questo “fare il cronista” che lo porta spesso a “fare elenchi” come diceva Maurizio Costanzo. I suoi erano elenchi di fatti reali, situazioni talmente assurde da risultare spesso comiche: l’ironia e il sarcasmo che tanti trovano nei suoi testi lui li definiva «gusto del paradosso». Il nonsense di cui si parla tanto quando si parla di Rino Gaetano non è mai banale. Ad un ascolto superficiale le sue canzoni risultano essere leggere e Rino Gaetano ne esce fuori come un edonista casinaro che «la notte la festa è finita, evviva la vita!». A causa della forza travolgente alcune sue canzoni sono diventate dei veri e propri tormentoni, tanto da perdere di significato. Su tutte Gianna che Rino Gaetano in realtà amava poco o nulla e che è entrata nel repertorio popolare italiano: andare in giro nelle discoteche nel periodo di carnevale per constatare che tra Gianna e Il ballo di Simone viene passata al massimo Tanti auguri di Raffaella Carrà. Ma Rino Gaetano, non è uno che scrive un testo divertente e ci mette dietro una musichetta allegra. Parlando di lui, Francesco De Gregori, suo compagno di avventure a tempi del Folkstudio, ci tiene a dire: «Le sue canzoni avevano l’aspetto del nonsense, ma avevano contenuto, facevano pensare. Rino sapeva cosa sono le canzoni e come si scrivono».
Accertate, dunque, le capacità artistiche di Rino Gaetano con il definitivo giudizio di De Gregori, c’è da risolvere il difficile problema della collocazione. Volendo insistere nel trovare un riferimento, viene alla mente un paragone extramusicale che accosta Rino Gaetano al primo Roberto Benigni. Entrambi dissacranti, entrambi apparentemente ignoranti: non sono forse ugualmente spiazzanti, per il pubblico di allora, i comportamenti forzatamente euforici di Benigni e le esibizioni eccentriche di Rino Gaetano che entra in scena con un cappello da safari e la pompa di benzina in mano? Ad accomunare i due poi, chissà, avrebbe potuto essere anche un percorso di crescita culturale. Come Benigni oggi va in giro a decantare Dante e incantare il pubblico (chi l’avrebbe detto negli anni ’70?), Gaetano avrebbe potuto diffondere a suo modo i propri miti culturali. L’impressione è che la morte ne abbia interrotto drasticamente la maturazione artistica ancora troppo legata alla forma, data la giovane età, e che negli anni sarebbe venuto fuori ancora più prepotentemente il contenuto. Il cantautore non nascondeva, infatti, i propri riferimenti culturali ma non aveva ancora la credibilità per tirarli fuori spudoratamente: ospite di Boncompagni durante una puntata di Discoring, ad esempio, Rino Gaetano aveva iniziato a nominare autori teatrali come Majakovskij e Ionesco ma il conduttore lo blocca subito specificando: «io eviterei queste citazioni così imponenti». Non c’è verso di farlo rientrare in un genere, un filone. È cantautore ma in modo diverso. Scrive versi nonsense ma con contenuto. Non si rifà agli americani, non si rifà ai francesi. Le sue canzoni non sono rock, non sono country, qualcuna è reggae, qualcuna ha ritmi spagnoli. E allora forse era giusto ciò che si leggeva in una recensione del suo secondo album Mio fratello è figlio unico nel 1976: «la difficoltà di trovare modelli cui avvicinarlo, correnti in cui inserirlo, è il miglior complimento che gli si possa fare». Qualcuno lo aveva capito già trentasette anni fa!