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Domenica 9 settembre 2012
CAMMINARSI DENTRO (408): Rinunciare a rendersi infelici
Temo che pochi conoscano il potere distruttivo delle illusioni, che ne siano cioè coscienti. La nostra mente è disposta ad ammettere questo fenomeno. Altra cosa è riconoscere nella propria esistenza i segni di tale azione, considerando ampie porzioni temporali dell’esistenza stessa. Riconoscere di essersi ingannati su una persona a cui siamo stati lungamente legati non è poi così facile a farsi!
La distruttività di cui parlo non risiede in un potere ‘diretto’ dell’illusione sulle cose o in una natura violenta dell’illusione stessa, come se fosse una forza che si abbatte su qualcuno! La negatività insita nella tendenza ad illudersi sempre sullo stesso ‘oggetto’, anche dopo ripetute smentite della realtà, dipende per intero da noi, dal fatto che facciamo derivare un sentimento, una relazione, un incontro non dalla conoscenza morale ma da preconoscenze, anticipazioni dell’esperienza, impressioni, vaghe sensazioni a cui non segue alcuna verifica! Quando si sia consolidato un giudizio sulla persona o sia stato fissato un criterio per l’azione, e per anni sia stato perseguito sempre lo stesso fine, il trascorrere del tempo non ci aiuterà ad allontanarci da quelle false ‘premesse’, dai falsi ‘fini’ assegnati all’azione. Se poi siamo convinti che ogni relazione sentimentale sia destinata a portare con sé una promessa di miglioramento, di cambiamento, che sicuramente seguirà, finiremo per aspettare per anni, anche per decenni il cambiamento desiderato.
Ciò che di più drammatico interviene a richiamarci alla realtà, nell’acmè, nel momento nevralgico dell’esperienza sentimentale, è il cumulo degli effetti a distanza, delle conseguenze di scelte lontane che continuano a farsi sentire: gli schiaffi in faccia, le sonore smentite, che non sono veri richiami alla realtà; dipende ancora dal nostro sentire, dal modo di percepire le cose la capacità di vedere ciò che abbiamo sotto gli occhi. Possiamo continuare per anni ancora a negare la realtà, fino alla catastrofe successiva, fino all’ultima catastrofe, quando ci ritroviamo in un vicolo cieco e siamo costretti a guardare indietro. E pure questo volgersi a considerare la strada fatta non è garanzia di ‘risveglio’, di resipiscenza, di ravvedimento.
Parlare di strada fatta è segno di una condizione di forte spaesamento. Quale ‘uso’ è possibile fare ora di una strada che è alle nostre spalle? Ci fregeremo di un titolo di merito, per aver finalmente capito? Chiuderemo al traffico la strada percorsa, per non tornarvi mai più? quando sappiamo bene che non ha senso immaginare un ‘ritorno’! Sanciremo con decreto solenne la fine di un errore? E come si amministrano gli errori? Basta dire che non torneremo a fare quello che abbiamo appena ‘finito’ di fare? Come se non sapessimo bene che siamo tutti condannati a commettere sempre gli stessi errori!
Allora, non ci resta che assumere il vero problema come il problema da affrontare: la nostra tendenza a illuderci, a costruire vane chimere su basi inconsistenti, progettando imprese al limite della disperazione, pur di soddisfare il bisogno di assegnare alla vita dei sentimenti fini che sono ad essi estranei. Pretendere, ad esempio, di rendere felice una persona che presumiamo non lo sia (a sufficienza) è stupido. L’unica cosa che abbia veramente senso è concedere a se stessi il diritto di essere felici. Solo su questa base e con questa premessa e con questa istanza avremo qualche chance contro la nostra tendenza a renderci infelici.