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Ripensando ai Masai

Creato il 11 luglio 2012 da Tabulerase

Ripensando ai MasaiMonti nomina il super esperto per rivitalizzare i conti senza nuocere gravemente, più di quanto sia stato già fatto, alla salute degli italiani. Così il commissario, illuminato, vede la luce “  Sarà mica che la soluzione ideale sia  tagliare la sanità e intervenire sul pubblico impiego?”

La luce, ahi noi, non è proprio siddhartiana. Per un welfare depredato dal debito pubblico, la one best way è antica come il mondo.

Fra i tanti tagli, anche la previsione di 7.000 posti in letto meno negli ospedali pubblici. La visione di fondo è “ tagliare per migliorare il servizio” o “tagliare per ridurre le spese”?. Non avrei dubbio sulla scelta. Dalla riforma delle pensioni in poi, questo Governo ha fatto luce su quella che è la funzione del commissariamento della politica: far compiere un passo passi avanti all’Italia verso l’Europa. Il contro effetto? Far trapassare lentamente gli italiani verso una società in cui l’accesso ai servizi pubblici, al sistema sanitario nazionale, alla scuola, al welfare è negato, e in cui il cittadino tenta di tenersi a galla tra tasse, balzelli e contributi.

Questo è il Governo del “contributo di solidarietà”, prelevato anche da redditi e pensioni che di milionario hanno ben poco, e questi contributi rimpinguano cosa? Di certo non accresce il benessere economico del Paese, ma men che meno quello sociale. Sempre più pare che l’unico status che  venga riconosciuto alle persone in Italia sia lo status di contribuente, che sarebbe poi il male minore, se venissero poste in essere le qualità giuridiche collegate a questo status. Di diritti, beh, ne godiamo ben pochi. L’ esercizio del diritto di cittadinanza ad esempio, concetto più esteso del diritto ad esercitare il voto. Se volessimo poi valutare la garanzia di diritti sociali costituzionalmente garantiti, quale diritto al lavoro, diritto alla salute e diritto allo studio, ci chiederemmo cosa differenzia il sistema politico italiano dalle organizzazioni politico-sociali di una qualsivoglia comunità etnica.

Proprio l’altro giorno, mi è capitato di ripensare alla popolazione Masai.

Pensavo al loro sistema di regolazione sociale.  Tra i Masai, che sono pastori nomadi, il diritto di appropriazione del bestiame e del pascolo è riconosciuto a tutti i Masai maschi nel momento in cui, insieme al loro gruppo generazionale, passano dallo status di “guerrieri” a quello di “anziani”. Diventati anziani possono sposarsi e costituire una loro famiglia, separata formalmente e spazialmente da quella dei padri. I capifamiglia, in quanto “anziani”, sono gli agenti sociali che unificano concretamente le condizioni della produzione, cioè gestiscono – entro vincoli prescritti – la mandria familiare. Questa include il bestiame donato ai figli, la cui progenie rappresenta la base della mandria futura di ciascun maschio della comunità. Un sistema complesso di doni regola la redistribuzione sociale del bestiame tra le famiglie, e, contemporaneamente, governa il ricambio generazionale dell’appropriazione di questo mezzo di produzione. In questo modo la comunità, e non le singole famiglie, si fa garante della realizzazione del diritto di ogni maschio, diventato “anziano”, di accedere al bestiame necessario a costituire un nuovo nucleo familiare, contribuendo così alla riproduzione della comunità. Anche l’accesso al pascolo passa attraverso la comunità, che “produce” (difendendolo dai non-masai) lo spazio produttivo comune tramite i “guerrieri”, che quindi rappresentano una forza produttiva della comunità. Le mogli/madri hanno il diritto di mungitura, per cui controllano – entro vincoli prescritti – la distribuzione dei mezzi di sussistenza.

In questo contesto i diritti sono immediatamente doveri, e afferiscono ai singoli membri della comunità in quanto afferiscono al gruppo generazionale cui essi stessi appartengono (ognuno, nell’arco della propria esistenza, passa da uno status a un altro). Per cui i diritti/doveri che regolano l’appropriazione dei mezzi di produzione e la distribuzione del prodotto vengono riprodotti, generazione dopo generazione, ricreando l’ordine che perpetua la divisione di status tra maschi e femmine, nonchè il passaggio dei maschi dallo status di bambini a quello di guerrieri e quindi a anziani. In definitiva, ogni status generazionale – di entrambi i sessi e inclusi gli anziani – ha diritti/doveri prescritti, sulla cui realizzazione è esercitato il controllo sociale e, se necessario, l’intervento dei “consigli degli anziani” attivati ad hoc nel caso di controversie o eventi straordinari. La riproduzione della divisione in status generazionali si realizza nella forma di un ordine tradizionale (la legge degli antenati)[1].

Un’organizzazione di tal tipo è sicuramente  immobile, ma non umilia nessuno e le regole valgono per tutti. Se pensiamo alla mobilità sociale in Italia, non mi pare sia meno statica di un siffatto ordine. Anzi, quel che vedo, è che la società declina quando si perde la dimensione della comunità, quando ogni gesto è riconducibile alla sfera dello scambio di mercato e si perde la dimensione solidaristica del dono. Questo non significa sottrarsi al mercato, perché i saperi e le conoscenze di ognuno devono essere preservate e  giustamente retribuite, ma far afferire i saperi individuali,  anche nella “categoria “ dei beni comuni, ha come effetto  che  questi dovrebbero essere condivisi e utilizzati anche nella sfera del “dono”. Ripensare le relazioni e la comunità, anche supplendo allo Stato, laddove non c’è. Certo di atti gratuiti non si mangia, nell’immediato, ma recuperare delle relazioni sane e solide, costruendo modelli di partecipazione sociale che coadiuvino lo Stato, per imporre l’inclusione delle persone e non solo dei contribuenti, renderebbe ognuno un po’ piu  libero nell’accesso  e nella fruizione di ciò che è stato concepito come pubblico e pubblico deve rimanere.

Non è il fascino dell’esotico, il rifiuto dell’occidentalizzazione, un revisionismo della modernità.

È solo riconoscere che quel che etichettiamo come tribale, non è che meno tribale di come noi viviamo. Sarà vero che gli italiani sono un popolo in cui i legami sono forti, sì, ma lo sono nella dimensione familiare. Noi italiani siamo portati a disegnarci  intorno “un cerchio magico”, fatto di tante relazioni, convenientemente pronte all’uso. Una valutazione utilitaristica di legami e valori, da cui pretendiamo un ritorno maggiore rispetto a quanto diamo. Diverso quindi dall’intendere  una  società che sia “comunità di persone che si relazionano”, smantellando i costrutti ideologici di una società concepita come sistema economico, in cui l’individuo è una risorsa umana orientata esclusivamente a preservare la propria esistenza, in un’ottica efficientistica, senza pervenire ad una piena realizzazione . Qual è il  senso di costruire per sé e per pochi, tramandando in eredità quel che già esiste, senza alcun mutamento, accontentandoci e galleggiando? Cosa ci differenzierebbe dai Masai? A vederla così, forse, solo meno civiltà, con in più la scure di un potere politico inadeguato.



[1] L. FIOCCO “Innovazione tecnica e innovazione sociale”


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