La televisione contribuisce alla costruzione della nostra percezione della realtà, questo è un dato di fatto. Molti psicologi e studiosi dei media, già da parecchio tempo, hanno messo in evidenza l’influenza del mezzo televisivo soprattutto su alcune fasce di pubblico come i bambini e gli adolescenti che non sempre sono in grado di distinguere tra finzione e realtà e che sono più esposti al pericolo di emulazione di fronte a contenuti aggressivi e violenti o semplicemente “facili”. Il dibattito sulla televisione ha coinvolto studiosi appartenenti a varie discipline spingendoli a interrogarsi su eventuali pericoli prodotti da un’ esposizione non consapevole.
L’epistemologo Karl R. Popper, che ha definito la televisione “cattiva maestra”, ha persino proposto in passato una patente per chi fa televisione e un albo per i lavoratori della televisione. Per il filosofo John C. Condry la televisione è una “ladra di tempo”, “un’emerita bugiarda” e una “serva infedele”, è “un’istituzione che serve gli interessi delle imprese da cui è sponsorizzata molto più di quelli del pubblico”. Pasolini aveva anticipato quarant’anni fa il potere omologante della televisione. Il dibattito sugli effetti dei media, e in particolare della televisione, appare più che mai attuale se lo si considera in una prospettiva di più ampio respiro includendo in esso la percezione della società stessa e la fase attuale di crisi lavorativa che stiamo vivendo. La televisione e la pubblicità creano desideri che nella maggior parte dei casi risultano impossibili da raggiungere. Un ideale eccessivamente votato all’apparenza e al riconoscimento sociale, al successo effimero e scontato, oggi più che mai, non può trovare spazio. La fallacia di questo modello si sta rivelando in modo prorompente.
La realtà lavorativa attuale, infatti, è tutt’altro che facilmente accessibile, e non solo per la crisi economica che ha ridotto i posti di lavoro, ma perché la concorrenza è troppa (causa l’aumento dei laureati in lizza per un posto adeguato al loro titolo di studio). Viviamo nella fase del lavoratore “a ribasso”: giovani qualificati costretti a sgomitare per un posto molto al di sotto delle loro potenzialità. Cosa c’entra questo col successo evanescente proposto dalla televisione? E’ poco incoraggiante che l’adolescente italiano medio sogna ancora di fare il calciatore. Ancora meno lo sono i milioni di giovani aspiranti ad un reality dai gusti sempre più volgari. Dunque, se ancora la televisione generalista da l’immagine che potresti essere “quell’uno che su mille ce la fa” e ce la fa senza troppi sforzi, allora forse è il caso di volgere lo sguardo anche a chi, tra i 999 rimasti, lotta per conquistarsi col sacrificio una vita dignitosa e magari cerca nel suo piccolo di contribuire al funzionamento della società. Sarebbe auspicabile che periodi di crisi come questo spingessero a fermarsi, riflettere, trovare soluzioni innovative e ricominciare traendo vantaggio dagli errori del passato e da modelli che risultano funzionali solo in superficie ma che nella sostanza creano una realtà falsa o frustrante.
Allora che fare? Fortunatamente sono lontani i tempi in cui si pensava che i messaggi dei media arrivano direttamente al bersaglio senza alcuna mediazione cognitiva. Man mano l’attenzione delle teorie sui media si è spostata da cosa i media fanno alle persone a cosa le persone fanno dei media, mettendo in luce la presenza di un soggetto consapevole che processa le informazioni al quale viene sottoposto.
La televisione dovrebbe diventare uno strumento utile al bene della società, dovrebbe recuperare quella funzione pedagogica che essa aveva prima dell’avvento della tv commerciale in cui serviva per “acculturare” gli italiani. Oggi ovviamente quella funzione dovrebbe essere ripensata e adattata al momento attuale che stiamo vivendo. Anche perché, proprio per la sua scarsa aderenza con la realtà, rischia di essere completamente soppiantata dai media più giovani tra cui internet, più adatti ad un consumo libero, consapevole, in cui è possibile riflettere e scegliere i propri contenuti. E soprattutto rischia di essere esclusa (e questo sta già accadendo) dai tanti giovani che non si identificano con quei modelli proposti e che pertanto preferiscono i media alternativi per costruirsi la propria immagine di realtà.
La televisione dovrebbe includere, inoltre, più specialisti del settore, perché ci sono ma non trovano spazio. Basta dare un’occhiata al numero di laureati che ha prodotto la facoltà di scienze della comunicazione negli ultimi anni (per altro oggi costretti a far scadere la propria professionalità per mancanza di prospettive lavorative). E allora, riconsideriamo, alla luce delle riflessioni attuali, la patente ipotizzata da Popper per i professionisti dei media. Restituiamo il ruolo se non pedagogico, per lo meno di qualità che la televisione ricopriva un tempo. E infine ricordiamo che i professionisti dei media ci sono, solo che sono sparsi qua e là a guadagnarsi da vivere facendo tutt’altro.