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di Francesco Sasso
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È cosa relativamente recente la netta differenziazione che oggi si fa tra filosofia, religione e psicologia, perché nell’antichità noi vediamo che molto sovente queste due discipline sono state affidate agli stessi uomini. Inoltre è indiscutibile che la civiltà greca fu la prima ad avere una vera e propria filosofia, e il genio di Aristotele e Platone fu per secoli l’ideale pietra di paragone per ogni altro sistema filosofico. E non solo: il filosofo greco era colui che metteva in pratica le sue riflessioni, mentre oggi pare che tra riflessione e prassi filosofica ci sia un abisso incolmabile.
Giusy Randazzo, insegnante di filosofia e in psicofilosofia, in La svolta filosofica. Consulenza filosofica e relazioni di aiuto analizza la deriva autoreferenziale della filosofia accademica e ci segnala un approccio altro: la filosofia pratica o, ancor meglio, il consulente filosofico.
«Insomma, il riferimento vero, era all’attività nuova della filosofia, non più chiusa entro i confini accademici, non più tendenzialmente autoreferenziale, ma pronta a recuperare gli effetti pratici della sua riflessione, mettendoli a disposizione dell’uomo» (p.20)
Recuperare il pensiero socratico, unendo dunque il pensiero dei filosofi greci con quello dei filosofi del Novecento, il consulente filosofico cerca insieme all’individuo che lo interpella «la verità che gli appartiene, la Sophía che gli è propria, la risposta che per il suo mondo vale sempre come vera e che lo rende ciò che è» (p.32)
E ciò avviene attraverso un continuo confronto dialogico tra consulente e consultante per scoprire che «ciò che avverte come mancanza è ciò che la società ha imposto come modello ideale e che, piuttosto, dovrebbe imparare ad avvertire la mancanza di se stesso e a esercitarsi per giungere alla padronanza di sé attraverso l’esercizio della cura di sé e degli altri, chi forma il consulente a questo tipo di lavoro?» (p.44)
E qui sta l’inghippo d’ogni professione in cui un uomo è chiamato a far da guida ad un altro uomo. La risposta dell’autrice è questa: il consulente deve assumere la posizione socratica di non sapere nulla del mondo del consulente. Il loro rapporto sarà dialettico e di contrapposizione:
«Il consulente filosofico vive il consultante sempre come fosse un filosofo. Vuole capire ciò che pensa, quali modalità a priori utilizza per dal luogo ai suoi ragionamenti; vuol comprendere lo schema con cui interpreta la realtà, con cui esperisce ogni evento; vuole scoprire e analizzare le risposte ai suoi quesiti filosofici, ma ha anche il compito di mostrare tutti i percorsi possibili» (p.79)
Insomma, il consulente filosofico non deve imporre la sua visione, la sua Verità, ma mostrare all’altro la verità che gli appartiene e di cui deve acquisire consapevolezza chiara per diventare ciò che è, recuperando così il noto motto di Talete.
Frutto di questo lavoro è la scoperta dell’altro «come soggettività estranea alla sua, con cui può entrare in comunicazione, consapevole che anch’egli è padrone del suo mondo. Una tale autoesperienza consente di aver sempre presente l’irriducibilità dell’altro» (p.90)
Per concludere, dunque, il saggio di Giusy Randazzo ci segnala una nuova figura professionale, il consulente filosofico, il quale tenta di riportare la filosofia alle origini, quando la sua attività era cammino di vita, cioè ricerca che conduce alla vera vita dell’uomo.
f.s.
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