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Riprendersi la vita

Creato il 05 luglio 2015 da Albertocapece

 Anna Lombroso per il Simplicissimus

Se ormai viviamo in una guerra, se ormai lo strumento per garantirsi il consenso, tramite minaccia, ricatto ed intimidazione, è la paura, del passato, del presente e del futuro, degli altri e di  ombre oscure dentro di noi,  il referendum greco ha ben altri significati oltre a quelli mistificati e branditi come un’arma in una campagna mediatica senza precedenti.

La parola no ormai è rimasta l’unica a parlare di coraggio, una virtù che dovrebbe appartenere al principe ma ancora di più al popolo, nel caso, come la storia ha mostrato tante volte senza insegnare nulla, che debba rivoltarsi contro di lui.

La  storia, la cultura, la filosofia greca hanno parlato da sempre di coraggio, quello dei suoi eroi e quello, ancora più utopico e ideale in quanto collettivo, della polis, dove i cittadini animati dal desiderio  di  essere e ragionare insieme, non per qualcuno o contro qualcuno, mantenendo la pluralità e la libertà di ciascuno di agire e giudicare senza omologarsi a un partito o  a un’ideologia, per costruire uno spazio pubblico armonioso ed equo.

Di fronte a governi fantoccio, come il  nostro, segnati dalla volontaria rinuncia alla rivendicazione di sovranità in favore di ambizioni personali e della conservazione di privilegi e rendite di posizione, dall’abiura a ogni compito di rappresentanza dell’interesse generale, come di fronte a collettività che preferiscono non sapere, non vedere, in favore di una delega in  bianco firmata nel corso di elezioni ridotte a stanche liturgie di registrazione notarile di scelte compiute in lontananze ostili, comunque vadano le cose un pronunciamento contro dogmi  iniqui, contro invadenze efferate, contro l’incrementarsi di disuguaglianze, se mette paura ai padroni in casa altrui, ai nemici che sono entrati sbattendo la porta per far vedere al loro potenza, dovrebbe suscitare coraggio in noi, dimostrando che è possibile dire di no, rifiutare l’accettazione delle logiche dell’esistente che sostengono l’imperativo contemporaneo – tomba di ogni visione, di ogni sogno, di ogni alternativa – della non trasformabilità e ineluttabilità  del reale, dell’implacabilità del desolante stato attuale.

Sono tempi nei quali crediamo poco ai miracoli, quelli della ripresa, quelli del progresso, quelli dei marziani che scendono a salvarci. Ma ciononostante in tanti oggi, malgrado il martellare sgangherato di una stampa gaglioffa che fa da altoparlante all’altalenare di bastoni e carote, di minacce e blandizie: a pagare sarete voi, e, al tempo stesso, a voi non può succedere ben protetti come siete nella cuccia dell’eurozona, a dati taroccati sull’occupazione e  sui benefici del recupero del debito greco, malgrado la spocchia di comandanti che cominciano a temere che i topi comincino ad abbandonare la nave, ci sperano in un miracolo magari solo simbolico,  quello nel quale vinca a si diffonda un coraggio inteso come critica del presente, l’aspettativa che non si attribuisca ad altri, a regimi e poteri interno o esterni, la  ‘trasformazione del mondo’ se intendiamo così ricominciare a guardare a quella stella polare che parla di uguaglianza, libertà, solidarietà, spegnendo quel led che invece reclama profitto, schiavitù, sfruttamento.

Non ricordo chi ha detto che il coraggio è la virtù del cominciamento, la capacità a volte sconsiderata ma sempre elevata e morale  a entrare nel mondo, ad apprezzare il rischio della riconquistata dignità e del tanto cercato riscatto, anche se sfuggono il significato e gli effetti possibili  dei propri gesti individuali. Come succedeva nelle illustrazioni della Domenica del Corriere, quando il casellante sfidava il treno per salvare il bambino, come tanti piccoli eroi sconosciuti fanno in nome di altri sconosciuti, perché a volte si tratta di correre un pericolo per andare in aiuto di una comunità immaginaria, ignota, ma della quale facciamo parte.

In questo nostro paese abbiamo lasciato soli i lavoratori, lasciamo soli i profughi, lasciamo soli i malati, lasciamo soli i vecchi. Così, soli anche noi, ci consegniamo a  chi ci promette la sopravvivenza. Ma non è meglio il coraggio di riprenderci la vita?


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