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Ripresa o default: quale scenario possibile?
Creato il 08 agosto 2014 da Vincitorievinti @PAOLOCARDENASEGUI VINCITORI E VINTI SU FACEBOOKE SUTWITTER
Buon giorno e grazie per il tempo che ha deciso di dedicarci.
Nonostante il mantra della ripresa a cui ci ha abituato l’attuale governo negli ultimi mesi, i dati Istat sulla produzione industriale italiana raccontano una storia ben diversa, con un dato tendenziale annuo che segna un -1,8%. Qual è la sua opinione in proposito? In realtà il mantra della ripresa economica non è qualcosa che appartiene solo all’attuale governo. Dall’inizio della crisi economica tutti i governi che si sono succeduti, a partire dal Governo Berlusconi, hanno clamorosamente fallito le previsioni di crescita, quindi, anche quelle sul deficit e sull’andamento del debito pubblico. È una ritualità che si è consumata in questi anni di crisi e che appartiene a tutti i governi che si sono succeduti. Per riscontrarlo è sufficiente farsi un giro nel sito del MEF e analizzare le previsioni di crescita contenute nei DEF dei rispettivi governi. Il risultato di questo modo di operare è quello di trovarsi sempre nella necessità di dover agire per contenere i conti pubblici, minati da buchi di bilancio causati da una crescita inesistente, almeno fino a questo momento. Tant’è che, proprio in questi giorni, sulla stampa si è letto che in autunno ci sarà bisogno di una manovra di oltre 20 miliardi. Cosa che, a dire il vero, era facilmente intuibile già in Aprile dopo la pubblicazione del DEF che, per il 2014, stima una crescita del PIL nominale dell’1.7%; crescita del tutto irrealizzabile stante la debolezza dell’attività economica e le forti spinte disinflazionistiche che rendono irraggiungibile la performance ipotizzata dal governo. La stessa tendenza di bassa crescita, anche se di intensità minore, sembra essere seguita anche da Francia e Germania. Perché l’Europa continua a essere in crisi, a suo modo di vedere?
Posso dirle che in un’area valutaria non ottimale quale quella dell’euro, in presenza di uno shock esterno come quello prodotto dal fallimento della Lehman Brothers nel 2008 con il conseguente crollo dell’attività economica, dei livelli di commercio internazionale, e con l’esplosione dei debiti pubblici (in un primo momento dovuta ai vari salvataggi bancari nel contesto europeo e, successivamente, alla contrazione dell’attività economica), comandare (da parte tedesca) a molti paesi del’Eurozona una stretta fiscale simultanea di queste dimensioni, corrisponde ad un vero e proprio suicidio economico, oltreché politico. Peraltro in un contesto di crescita globale non entusiasmante e quindi non idoneo a stimolare l’attività economica dei singoli paesi per via di esportazioni a livelli idonei (peraltro impensabili) ad arginare gli effetti del crollo della domanda interna. Ecco quindi che, in Italia (ma anche altrove) la caduta dei livelli di attività economica non ha fatto altro che creare pressioni sul mercato del lavoro, con la disoccupazione esplosa a livelli allarmanti ed inaccettabili. Quindi la minore capacità di consumo delle famiglie, aggravata da un feroce inasprimento della pressione fiscale, ha aggravato ulteriormente la crisi che si è manifestata in modo dirompente colpendo, a mio avviso, molto gravemente, una parte significativa del tessuto produttivo ed imprenditoriale nazionale, facendo esplodere le sofferenze bancarie giunte a circa 170 miliardi di euro, minando sempre più i bilanci banche, costrette a ridimensionare i volumi di credito concessi a imprese e famiglie, ed innescando così un circolo vizioso dal quale uscirne sarà impresa assai ardua.
La gestione di questa crisi (soprattutto da parte tedesca) è il simbolo del fallimento totale dell’Eurozona per come l’abbiamo conosciuta fino a questo momento. Quindi, l’Eurozona, o si riforma molto rapidamente convergendo verso un’unione politica, economica e fiscale capace di compensare al proprio interno le asimmetrie economiche esistenti in nazioni economicamente (e non solo) divergenti, oppure verrà condannata dai fatti alla dissoluzione, con il conseguente crollo della moneta unica e il ritorno alle valute nazionali. Circostanza, questa, per il momento solamente evitata (rimandata) grazie agli interventi espansivi della Bce che nel 2012 ha evitato l’implosione del sistema bancario. A mio parere, appare assai remota la possibilità che l’Europa possa riuscire a riformare sé stessa e a costituirsi in forma federale in tempi abbastanza solleciti e comunque in sintonia con i tempi richiesti dalla gravità della crisi. In un recente articolo, pubblicato sul suo blog, Lei mette in guardia sul pericolo di un nuovo default finanziario. È davvero uno scenario concreto?
Dall’inizio del 2009 fino ad oggi il debito pubblico, nonostante tutte le manovre lacrime e sangue varate, è aumentato di oltre 400 miliardi di euro. Per contro si è assistito ad un forte ridimensionamento del Pil. Tant’è che il rapporto debito/Pil è passato dal 103% del 2007 a quasi il 140% attuale. Oggi il debito pubblico è assai meno sostenibile di quanto lo fosse solo qualche anno fa e che si possa giungere a qualche forma di ristrutturazione del debito pubblico, direi che è nell’ordine delle cose. Giova ricordare che, già dal gennaio 2013, il debito pubblico emesso dalla Stato italiano nelle scadenze superiori a 12 mesi, è emesso in vigenza delle clausole di azione collettiva, che, al raggiungimento di determinati livelli di adesione degli investitori, consentono alla Stato italiano modificare le caratteristiche dei titoli emessi. Per questo, quindi, il Ministero dell’Economia potrebbe modificare la data dei pagamenti di cedole e rimborsi, il tasso di interessi o addirittura decurtare il capitale rimborsato alla scadenza dei titoli di Stato. Può illustrare quali sono i campanelli d’allarme più preoccupanti in questo settore?
Ogni bancarotta che si rispetti presuppone tempi di incubazione relativamente non brevi, dove si manifestano dinamiche in via di principio comuni a tutti i default. Queste sono: repentini mutamenti di governi, anche con presa del potere da parte di persone non elette; fallimenti e sostanziali ridimensionamenti di realtà produttive; innalzamento della disoccupazione; crolli della borsa, specie dei titoli legati alla finanza ed al credito; repentini aumenti della pressione fiscale; significativa riduzione delle liquidità depositata presso gli istituti di credito; cessione di quote di sovranità in cambio di aiuti o denaro fresco; intervento di organismi internazionali (FMI, Troika). Molte delle caratteristiche enunciate si sono già concretizzate. Altre, invece (tassi a breve che superano i tassi a medio a lungo termine, crollo del rapporto bid-to-cover nelle aste dei titoli di stato, ecc.), pur essendosi affacciate nello scenario già alla fine del 2011, sono state arginate dagli interventi della BCE. Ma ciò non esclude la possibilità che si possa comunque giungere a qualche forma di ristrutturazione del debito o a qualche forma di imposizione patrimoniale che consenta di recuperare risorse da destinare all’abbattimento del debito pubblico. Come lei saprà, attualmente le banche italiane detengono circa 400 miliardi di titoli di Stato. Questa circostanza, a mio avviso, fino a quando il sistema bancario navigherà in condizioni di debolezza come quella in cui versa allo stato attuale, in realtà costituisce un deterrente e un disincentivo a idee di ristrutturazione del debito pubblico, poiché presupporrebbe anche il fallimento di una parte non del tutto trascurabile del sistema bancario che non riuscirebbe ad assorbire il colpo derivante da un possibile taglio dei valori del debito pubblico in portafoglio. A meno che il governo non inventi qualche forma di sostegno pubblico accessorio, destinato al sistema bancario, tale da mitigare l’impatto che deriverebbe da un haircut del debito. Il che non sarebbe affatto da escludere. L’abbattimento di un aereo malese sembra essere il simbolo più evidente del fatto che le attuali crisi geopolitiche potrebbero avere una risonanza ben più ampia dei confini in cui si svolgono. Oltre all’Ucraina anche il Medio Oriente con la recente crisi israelo - palestinese e le sommosse irachene manda segnali alquanto preoccupanti al resto del mondo. Cosa ne pensa?
Lo scenario geopolitico che si sta esprimendo in molte aree del mondo non è affatto rassicurante. Lei ha citato alcune crisi ma, a mio avviso, quella che desta maggiori elementi di preoccupazione ed inquietudine, è proprio quella ucraina, dove l’asticella è stata spostata in un territorio molto pericoloso. In quella area sono state commesse gravi violazioni e ingerenze da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, che hanno peggiorato la dinamica della crisi, che potrebbe avere conseguenze assai imprevedibili. A mio avviso, in quel contesto (ma anche altrove) è stato violato il principio di autodeterminazione dei popoli. Proprio come è avvenuto in tutti gli scenari dove si è cercato di esportare la democrazia. Ma, come ho già avuto modo di scrivere, la democrazia non ha gli stessi connotati per tutti i popoli del mondo, e soprattutto presuppone dinamiche e equilibri complessi, che variano in ragione di imponderabili aspetti, circostanze, culture e storie. Ogni popolo ha il diritto (oltre che il dovere) di disegnarsi il perimetro entro il quale esercitare la propria democrazia, dotandola degli elementi più consoni al proprio status, nei modi ritenuti più opportuni e in ragione delle rispettive culture, delle proprie storie e aspirazioni. La democrazia non è standardizzabile. La democrazia non è qualcosa di perfetto. Men che meno esportabile. La democrazia né si compra, né si vende. La democrazia la si conquista e basta: in un percorso perpetuo che non conosce mai fine. Perché la democrazia è sempre perfezionabile. Guardi in giro per il mondo, in quei Paesi teatro di eventi bellici apparentemente finalizzati ad esportare democrazia e pace. Osservi l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, solo per citare alcuni esempi. Sono tutti Paesi che hanno subìto pesanti attacchi militari, in nome della democrazia imposta e della pace indotta. Hanno subìto cambi di regimi o di governi. Hanno patito morte, distruzione e disperazione. Eppure, ancora oggi, dopo molti anni, tutto sembrano tranne che democratizzati o pacificati. Ogni popolo ha il diritto di trovare e percorre la propria strada, il proprio destino e di poterlo fare liberamente, lontano dai precetti imposti da qualsiasi mano apparentemente celeste, come se fosse l’unica depositaria di bene e verità assoluta. Quali possono essere le conseguenze economiche dell’attuale scenario geopolitico?
Venendo alle conseguenze economiche, al netto del dramma che stanno vivendo le popolazioni colpite dalle tragedie che abbiamo enunciato, possiamo dire che molte economie che sono tutt’ora in crisi (tra cui l’Italia) si mantengono a galla proprio grazie al contributo della componente export. È chiaro che un eventuale peggioramento dello scenario geopolitico rischierebbe di ridurre l’attività economica a livello globale, con conseguente contrazione della quota export, che precipiterebbe in recessione proprio quelle economie più vulnerabili. In questo contesto, le sanzioni imposte alla Russia da parte dell’Occidente, rischiano di peggiorare notevolmente la dinamica della quota export proprio di quei Paesi che godono di scambi commerciali significativi verso la Russia, tra cui l’Italia. Grazie della collaborazione.
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