Ci ho pensato, questa mattina, se avvertire che sarei arrivata dopo pranzo, per prolungare di poco le microferie o uscire alla solita ora e pace. Ha vinto la mia parte oggettiva: che differenza fa, se comunque è inevitabile?
Pochi chilometri di malumore, l’entrata nel solito posto per il solito lavoro. Qualche “urgenza”, robetta. Più passa il tempo più mi chiedo se la parola urgenza non dovrebbe essere utilizzata solo in caso di vite umane, per non farla perdere di significato. La maggior parte delle criticità derivano dal fatto che la gente non ha voglia di prendere una decisione e la delega al superiore, sperando che sia più attivo di lui. I superiori sono pagati per prendere le decisioni, d’altronde, anche se, dopo tredici anni di osservazione, sono dell’idea che ne basterebbero la metà, di superiori, se al livello inferiore le persone fossero più incentivate a ragionare e responsabilizzate. E’ un gatto che si morde la coda però: meglio non avere troppa gente in grado, o con la voglia, di ragionare altrimenti non tollererebbe certi meccanismi alienanti, certe indicazioni incomprensibili, un certo fare e disfare di cui sfuggono le logiche ai più. E così ragiona solo chi, tra quelli capaci, non ha ancora perso la voglia di farlo. Gli altri si sono rintanati in un guscio comodo, tanto non cambia mai nulla.
Davanti a me c’è un’appestata di influenza, di quelle appartenenti a chi non è ancora stufo: peccato che, presentandosi oggi, ci decimerà in pochi giorni con questa influenza che gira e gira e fino ad ora ho schivato. Da un lato ho un esemplare raro che vive per il lavoro, dall’altro ne ho due rassegnati, coscienziosi, ma non troppo. Vivono in economia di energie, preferiscono affrontare i picchi se serve.
Ieri pomeriggio ho fatto un giro – c’era il sole – e ho chiacchierato con un po’ di persone, incontrate per le vie di un paesino e mai viste prima. Alla gente piace parlare, se la si saluta. Si discuteva di cose che cambiano e si rimuginava su casi pratici sotto i nostri occhi applicando quel noto luogo comune sul mondo che andava meglio quando andava peggio. Ad esempio: un tempo qualcuno della comunità, in accordo con sindaco e giunta, puliva i greti dei fiumi e tagliava a rotazione gli alberi, a partire dai più vecchi. Adesso non si tocca nulla, reato contro lo stato, e il greto è sporco, e il bosco rende meno perché gestito da gente che non sa. Alla prossima alluvione tutti si faranno meraviglie, lanceranno j’accuse su pubblica piazza e pubblici giornali mentre gli alluvionati si tireranno su le maniche per salvare il salvabile. Ci si chiedeva perché certe risorse, eredità del passato, invece di essere sfruttate e manutenute, vengano trascurate. C’è una certa incongruenza anche nelle case, oltre che nelle cose: meglio roba nuova, su prati nuovi, magari con criteri ambientali avveniristici, e materiali fatti per durare una vita, non qualche generazione. Poi arriva chi ha il coraggio di restaurare e rendere una costruzione vecchia talmente bella che tutti si meravigliano, pur mantenendone le caratteristiche originarie. Piace a tutti il vintage rimesso a nuovo. Perché costruire nuove fabbriche, nuove case, nuove scuole se forse si possono mettere le mani nelle vecchie e renderle nuove senza sprecare spazio, senza lasciare brutture in disuso? Poi arriverà qualcuno, come il tizio che ha inventato quella colossale truffa per creature di città che è il chilometro zero, e si farà finta di ripescare abitudini antiche con prodotti che arrivano da lontano. Si diceva anche che tempo fa, a vent’anni, i ragazzi avevano in mano un mestiere, perché lo avevano imparato da chi lo sapeva fare, sicurezza inclusa. Giusto studiare: si potrebbe essere capaci di lavorare a venticinque, allora. Non accade, si diceva, nemmeno a trenta adesso: hanno imparato tanto, tantissimo ma non sanno fare e comunque non trovano lavoro. Già. Per fortuna che dopo sono arrivate vecchie storie con tutto il loro fascino: le ho ascoltate al cimitero, luogo di incontro per eccellenza in questi paesini di mezza montagna. Pareva, di storia in storia, spuntassero fuori dalle fotografie sulle lapidi le anime delle persone, insieme all’eco di amore, dolore, risate, insegnamenti, vita che hanno lasciato a chi li ricorda ancora e li rivede camminare per le vie, affacciarsi all’uscio delle case, fermarsi davanti all’osteria a chiacchierare. E’ passata una signora di altri tempi, tra noi che stavamo facendo un viaggio nel passato: la ricordo piccola, come è ancora, in un negozietto che vendeva latte, burro e dolci. Poche lire e bambini felici. Le mamme, ormai anziane, le dicono ancora che per tenere buoni i bambini ai tempi promettevano che il sabato, dopo catechismo, avrebbero potuto comprare da lei le caramelle. Non c’erano grandi cose allora: niente ipermercati, niente sovrabbondanza di scelte anche a poco prezzo. L’immaginazione viveva di sogni semplici, grandissimi e di liquirizie. Insomma, si dicevano un sacco di cose ieri e alcune erano vere, altre magari erano belle solo nel ricordo, altre è stato meglio non ci siano più. Ci sarà da qualche parte una misura per il mondo? Una ricetta di equilibrio per il benessere fisico ed emotivo: un po’ di questo, un po’ di quello, non troppo di nulla. E magari lo chiamiamo minimalismo, così suona bene, questa piccola menzogna spuntata dalle ceneri della sovrabbondanza che ci è venuta a noia.
E è uscito così, tutto raggrinzito e rancoroso, questo post che voleva solo dire due cose leggere leggere, lamentarsi un po’ per il brusco rientro, tentennare tra sciocchezze in questo anno nuovo, appena abbozzato, e così simile al vecchio e così tutto da costruire. Tale resta, mentre il pomeriggio si allunga nella ripetitività di situazioni urgenti sempre simili a se stesse. Le riprese, si sa, illudono spesso.