Magazine Cultura

Riscoperte

Creato il 04 dicembre 2010 da Renzomazzetti
Alessandro Natta.

Alessandro Natta.

  Questa è un’intervista dedicata al futuro; ma, siccome non esiste futuro senza presente e senza passato, dobbiamo guardare all’essenziale, ai movimenti e ai tragitti, insomma alle tendenze di fondo, piuttosto che agli episodi. Conversiamo a lungo in questo pomeriggio di metà novembre, pur se il nostro incontro si concluderà bruscamente: Natta dovrà correre alla Camera dove è in discussione il bilancio dello Stato (e dove la tabella del ministero della Pubblica Istruzione proprio in serata sarà bocciata). Dunque un colloquio puntato sul futuro ma scandito dal presente. Cominciamo. Della nostra tradizione mi sembra rimanga molto. Rimane innanzitutto l’idea di una società in cui, come diceva Marx, il libero sviluppo di ciascuno sia condizione del libero sviluppo di tutti. E’ un’idea che continua a vivere. E da essa viene l’aspirazione alla liberazione dell’uomo e dell’umanità, e la fermezza nel perseguimento di grandi idealità e valori come quelli della libertà, della solidarietà, dell’eguaglianza. Questo patrimonio, sempre vivo, è suscettibile di nuove formulazioni e sviluppi, di un rimodellamento continuo nella politica e nei programmi. É l’essenza del nostro patrimonio, e per noi non è un’utopia, ma il nostro futuro perché la sostanza dell’analisi marxiana ha provato la sua forza. In ogni parte del mondo i processi di socializzazione sono andati avanti. I paesi capitalistici sviluppati sono imparagonabili con quelli di cent’anni fa. E senza la socializzazione di funzioni un tempo private, non reggerebbero. Certo, se dobbiamo pensare alla frontiera del duemila dobbiamo anche guardare più avanti perché i tempi storici dell’evoluzione umana sono lunghi e anche imprevedibili. Noi non diremo e non possiamo dire che l’ultimo orizzonte della civiltà dell’uomo siano le realtà ed i sistemi esistenti, da una parte e dall’altra. Abbiamo giustamente perso una impostazione del comunismo come palingenesi definitiva, come raggiungimento di una meta conclusiva per tutti i conflitti e per tutte le contraddizioni. Le prime realizzazioni pratiche hanno dimostrato il loro divario profondo rispetto alle idee fondamentali. Non ci sono soltanto esperienze negative. In realtà il movimento nostro ha segnato un’epoca. Oggi, comunque, ci sono nuove sfide, e innanzitutto il carattere eventuale delle guerre. Il movimento socialista, comunista, ha sempre avuto come propria la grande idealità della pace, il socialismo non può essere né determinato né incentivato da un evento bellico. Togliatti non dovrebbe forse più scontrarsi con Mao che sosteneva, nel 1957, l’inevitabilità della guerra e traeva consolazione dal pensare che in definitiva qualcuno sarebbe sopravvissuto. Ci sono fenomeni nuovi, problemi, contraddizioni.

Il rapporto con la natura.

Il rapporto con la natura dà una dimensione nuova all’agire politico e di governo nel senso più ampio. Noi siamo giunti al punto in cui non possiamo più avere la presunzione del dominio sulla natura nei termini in cui è stato concepito per secoli, cioè come una fonte di risorse, di energie e di sfruttamento inesauribile per migliorare le condizioni dell’uomo. Questo è un fatto, un mutamento di straordinaria importanza. Lo stesso accade per la scienza, che mette in discussione se stessa, e ancora poco tempo fa era fatta di certezze assolute. Oggi pensiamo che senza una utilizzazione umanamente, moralmente, socialmente consapevole dei suoi risultati, la scienza può generare conseguenze distruttive. Cose di questo genere determinano quella che si è chiamata una crisi, la crisi delle ideologie assunte come sistemi di idee assolute. Marx definiva le ideologie quali forme di falsa coscienza. E’ un bene averlo riscoperto. Ora pensiamo di dover affrontare costruttivamente questa crisi, pensiamo che sia un problema della politica, di una politica nuova.

 

Dea ricerca.

Dea ricerca.

 

Utopia.

Quante volte ci siamo battuti temendo di fare cosa inutile, di perseguire obiettivi irraggiungibili, utopie, appunto. Poi ci siamo accorti che qualcosa è stato fatto. Intendiamo batterci per un’altra utopia: la piena occupazione. Appare ancora un obiettivo utopico, ma non possiamo rassegnarci a un mondo e a un paese come il nostro in cui gli uomini siano destinati, in parte notevole, a non avere lavoro o a doverlo attendere nell’incertezza. Esiste certo un problema di rapporto mercato-programmazione. Un problema che ripropone contrasti di classe che le trasformazioni di questi anni non possono trasformare. MICHELE * : << Inseguire l’utopia della piena occupazione nel momento in cui la gente non crede alle utopie e prevale la logica di mercato, del liberismo puro, del due più due che fa quattro nonostante le esigenze sociali… >> Questo è vero, ma i giovani credono anche alla necessità di un lavoro. E non si tratta solo di un bisogno, è sentito come un diritto inalienabile. Diritto irrinunciabile. L’ignorarlo ci espone a rischi gravissimi, la gente ormai lo sente. Ma c’è anche il problema della sicurezza. Possiamo rassegnarci a una società in cui anche la libertà di intraprendere e di godere il frutto del proprio lavoro, è soggetta a un taglieggiamento criminale? C’è un problema della qualità della vita, dell’acqua che bevi, dell’aria che respiri. Questa società non va bene così com’è. Nonostante i suoi aspetti scintillanti, il suo metro di misura non può essere quello che ci fa vedere la pubblicità della televisione. Il valore dominante non può essere il successo, il potere, la ricchezza, ottenuti con ogni mezzo, compresi i più ripugnanti. Io sento che viene il momento della ripresa, dell’offensiva.

Mezzogiorno.

La disoccupazione e il problema del mezzogiorno, trascurati sempre dallo Stato unitario, sono alla base di una spirale che stringe, soffocandoli, la società e lo Stato. Non ritorno su un’analisi tante volte fatta: il divario Nord-Sud, la disoccupazione come altra faccia di uno sviluppo distorto. Ricordo che uno studioso che non è della mia parte, Pasquale Saraceno, ha avvertito: se si procederà ancora così, il problema del Mezzogiorno diventerà irrimediabile per secoli! Intendiamoci: il Mezzogiorno non è più quello di quaranta anni fa. Ma il fatto è che si accentua il divario: e la questione, così, non è più solo economica e sociale, ma è divenuta tale da minare la democrazia italiana. Questo è il risultato di indirizzi politici sbagliati, che il nostro movimento ha sempre contrastato. Devo ricordare Gramsci che negava il dato, da alcuni ritenuto determinante, della natura, della fatalità, del carattere degli uomini? Gli uomini sono fatti dalla storia e dalle politiche. Anche il risollevamento del Sud è un’utopia irrealizzabile? Se dovessimo pensarlo sarebbe la fine. Dobbiamo assumere come elemento prioritario di ogni politica l’occupazione, e occupazione significa in primo luogo Mezzogiorno. Elemento prioritario. Ma l’ottica con cui dobbiamo affrontare questi problemi deve essere quella, sul serio, di una riforma dello Stato in cui l’elemento della politica economico-sociale sia fondamentale.

Programmazione.

Una riforma dello Stato che significhi affrontare i problemi della programmazione innanzitutto dell’intervento pubblico. E ciò vuol dire: scuola, formazione, ricerca scientifica, infrastrutture, assetto urbano, ambiente, capacità di orientare le risorse in modo socialmente utile. Questioni colossali, ma quando parliamo di una politica di riforme dobbiamo convincerci che si tratta di questo, e di cose grandi. Altrimenti dev’esser chiaro che si tratta di ritocchi. * << C’è bisogno di un mutamento di mentalità? >> Certo, ma anche di direzione politica. E di concezione della politica riformatrice: non si tratta più di incidere solo sulla distribuzione della ricchezza prodotta, ma di stimolare uno sviluppo nuovo. Qui sorge il problema dello Stato. Stiamo vivendo, nel nostro paese, una fase di concentrazione del potere, di un intreccio sempre più stretto fra potere finanziario e di potere politico. Vi sono, nei partiti al governo, forme di arroganza, di prepotenza, di indebita occupazione dello Stato. Ma vi è, contemporaneamente, un potere economico sempre più invadente. E, da progressista, da comunista, penso che anche un moderato debba oggi porsi una domanda: che cosa diventa la democrazia? Noi, dal 1945, non siamo mai stati fautori della statizzazione, è cosa che non si può dire dei comunisti italiani. Però una visione complessiva e un intento di coordinamento deve pur esserci, altrimenti non esiste più lo Stato e si verifica una sostituzione di poteri. Ciò non significa proporre forme di pianificazione centralizzata e impositiva. Ma è pienamente possibile conciliare programmazione e mercato. Non ci sarà salvezza non solo per l’Italia ma per nessuno nel mondo se non riusciremo a risolvere il problema più generale Nord-Sud. Oggi l’interdipendenza è diventata estrema, siamo tutti coinquilini di un grande edificio. Se quello che ci sta accanto è disperato finirà con l’assalirci in un modo o nell’altro. Non bisogna rassegnarsi. Non mi sento di affermare che queste idee, poiché non hanno trovato piena attuazione o hanno trovato applicazioni del tutto erronee, siano cadute o morte. In realtà sono queste idee che continuano a muovere il mondo, in ogni sua parte.

Dea sperimenta.

Dea sperimenta.

Movimento di massa.

Noi soli abbiamo scelto di essere un movimento di massa, i soli in modo autentico. Dovevamo rompere una concezione della politica come gestione di vertice, generatrice della pratica del trasformismo che, purtroppo, è un principio della storia italiana. Può essere che questo sforzo abbia avuto mancamenti e lacune. Ma esso ha seguito un percorso giusto. Altrimenti non saremmo diventati la forza più grande della sinistra in Italia, con radici così profonde. La nostra tradizione è portatrice di una grandissima cultura, e Gramsci non c’è stato invano. Ne è venuta al partito una ragione, ne sono venute una base e una fondazione ideale e strategica che ci ha consentito di portare un’idea nuova perfino di democrazia, perfino di nazione. Dico tutto ciò per domandare a mia volta: che cos’è questa cultura che ci mancherebbe? * << La cultura di governo, forse la mancanza di esperienze di governo. >> Ma questo non ci può essere imputato. Può benissimo accadere che chi sta al governo abbia meno cultura di governo di chi sta all’opposizione. Non credo altri abbia manifestato tanto senso dello Stato quanto quello di cui abbiamo dato prova noi, a cominciare dalla lotta antifascista, alla costruzione della Repubblica, alla difesa della Costituzione, alla lotta contro il terrorismo. Abbiamo commesso degli errori e per le questioni italiane non credo che ve ne siano di importanza strategica: anche nei momenti più aspri della lotta politica siamo stati ai patti e alla Costituzione e abbiamo, noi, in prima fila difeso i principi della democrazia. Limiti, contraddizioni, certo, ma errori di fondo no. La contraddizione maggiore è stata quella derivata dall’aver detto immediatamente, nel ‘45, che la strada del nostro partito non aveva niente a che vedere con quella dell’ottobre 1917 e che non ci sognavamo di proporre per l’Italia soluzioni di tipo sovietico, e nell’avere, d’altra parte, continuato a presentare l’esperienza sovietica come il punto più alto del socialismo. Per l’Italia le nostre idee erano nette e chiare, e non solo di Togliatti, ma di tutto il partito. Come saremmo stati, altrimenti, quello che siamo stati ad esempio in Emilia? Ma noi da una parte indicavamo e realizzavamo una politica di riforme, di democrazia progressiva e dall’altra abbiamo alimentato una visione in qualche modo acritica dell’Unione Sovietica. Un punto di contraddizione della nostra linea, anche se, in quegli anni lontani, immenso era il prestigio dell’Urss. Abbiamo anche attraversato la guerra fredda. Dal 1956 l’indirizzo diviene netto: dall’ VIII congresso si cammina su una linea di autonomia non solo nelle scelte ma nella visione dei problemi internazionali. Via via abbiamo segnato più chiaramente le distinzioni tra il socialismo che noi vogliamo e quello dei paesi socialisti.

Dea ricicla.

Dea ricicla.

Futuro.

LORENZO : << Come vedeva il futuro lei da ragazzo, come lo sente adesso?. >> Non sono un deluso, anche se la storia può avermi dato tante smentite a idee o previsioni che ci sembravano facili e sicure. Guardo con ansia all’avvenire, ma la giusta preoccupazione non deve portare allo spavento o a chiusure. Non si torna indietro. Tante volte, anche tra i giovani, si è tentati più che dal futuro dall’esplorazione di un passato che si vorrebbe far rivivere. E’ assurdo. Bisogna reagire, bisogna cercare di progettare. Il progettare è già un vivere nel futuro. Mi auguro che il futuro sia a dimensione dell’uomo. Se dovessi pensare che non ci sono generazioni che verranno avanti e cercheranno di portare il mondo a una condizione migliore sarebbe la smentita più dura a tutta la mia esistenza. Ho avuto fiducia nei giovani anche nei momenti in cui più grande pareva il loro distacco dalla politica. Denunciavano, criticavano: in realtà erano forme di ripulsa di una certa concezione della politica.

-(Lettura veloce di << Incontro al duemila >>. Michele Tito, con la collaborazione di Lorenzo Grassi, intervista Natta Alessandro, Segretario del PCI, Progettare è già vivere nel futuro/// edizioni l’unità. Documenti, dicembre 1986)-

 

CONTESSA

Che roba contessa all’industria di Aldo, han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti, volevano avere i salari aumentati, dicevano pensi, di essere sfruttati. E quando è arrivata la polizia quei quattro straccioni han gridato più forte, di sangue han sporcato i cortili e le porte, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire.

Compagni dai campi e dalle officine

prendete la falce e portate il martello

scendete giù in piazza e picchiate con quello,

scendete giù in piazza e affossate il sistema.

Voi gente per bene che pace cercate,

la pace per fare quello che voi volete,

ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra,

vogliamo vedervi finir sottoterra.

Ma se questo è il prezzo l’abbiamo pagato,

nessuno più al mondo dev’essere sfruttato.

Sapesse contessa che cosa mi ha detto un caro parente dell’occupazione, che quella gentaglia rinchiusa là dentro di libero amore facea professione. Del resto, mia cara di che si stupisce, anche l’operaio vuole il figlio dottore e pensi che ambiente ne può venir fuori, non c’è più morale contessa.

Zoe in trono.

Zoe in trono.

Se il vento fischiava ora fischia più forte,

le idee di rivolta non sono mai morte,

se c’è chi lo afferma non state a sentire

è uno che vuole soltanto tradire.

Se c’è chi lo afferma sputategli addosso,

la bandiera rossa ha gettato in un fosso.

    -P. PIETRANGELI -

     

[ Cerca: CLIC ]

 

Sola virtus praestat gaudium perpetuum securum.

-Seneca-

 


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

COMMENTI (1)

Da francodalucca
Inviato il 04 dicembre a 11:21
Segnala un abuso

Vorrei ribaltare il concetto di utopia = non luogo in quello di un luogo che e' esistente e realmente raggiungibile. Esso e' legato alla presenza di un progetto che,sulla scorta delle esperienze passate, ci faccia intravedere un orizzonte migliore. Un progetto alla portata di tutti, quindi socialmente valido e sostenibile, che richiede il contributo di ognuno di noi,della esperienza di ogni uomo che e' sempre diversa da quella dell'altro.La nostra utopia di oggi e' quella di raggiungere una democrazia partecipata e non gestita da un vertice.