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Era il 1993 quando uscì al cinema il titolo in questione e dietro la macchina da presa c’era John McTiernan, regista che allora portava all'attivo pellicole di levatura come “Predator”, “Die Hard: Trappola di Cristallo” e “Caccia a Ottobre Rosso”. Lo scopo dell’operazione era quello di smontare ed esaminare singolarmente, da vicino, ogni elemento caratteristico del genere action più grossolano, sbattendolo in faccia allo spettatore privo della sua veste integrale e ingannevole, in maniera che si rendesse conto di quanto stereotipato e di bassa lega un determinato archetipo di cinema seguisse ininterrottamente corrispondenti dinamiche.
Arnold Schwarzenegger entra quindi nei panni dell’invincibile Jack Slater, eroe dell’omonima saga cinematografica di successo giunta al terzo capitolo e prossima al proseguo.
Mentre a New York “Jack Slayer III” è ancora nelle sale, un suo grandissimo fan, Danny Madigan - ragazzino di dodici anni – non perde occasione per infilarsi nelle proiezioni e vedere e rivedere il suo mito sconfiggere cattivi su cattivi. Una notte viene invitato dal proiezionista-amico del cinema di quartiere per visionare, in anteprima, il quarto episodio della serie ma, durante lo spettacolo, la matrice del suo biglietto si rivela capace di aprire dei varchi tra finzione e realtà, e così, improvvisamente, il ragazzino finisce per trovarsi all'interno del film diventando ufficialmente la spalla del suo muscolosissimo eroe.
Combinare insieme mondi reali e mondi astratti è un processo che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha desiderato potesse avverarsi. Entrare a far parte di un universo differente, migliore, o, meglio ancora, se quello in cui vive il nostro eroe per eccellenza. Ma nel lavoro di McTiernan - che poi evidenzia tra i sceneggiatori i nomi di David Arnott e Shane Black (il regista e co-sceneggiatore di “Iron Man 3”) - non è solo una conoscenza estrema del genere action fatto a pezzettini nella sua forma più circoscritta e frivola a venir fuori, ma soprattutto la differenza netta che contraddistingue la realtà in cui viviamo dalla finzione in cui vivono i personaggi che noi tanto amiamo.
Entrato nel film del suo eroe preferito, Danny sa benissimo che né lui e né il protagonista potranno mai essere sconfitti dalla criminalità, poiché il contesto in questione obbliga che a vincere siano sempre ed esclusivamente i buoni e i giusti. Diversa tuttavia è la situazione quando lo scenario cade alla rovescia, e ad entrare in possesso del biglietto magico è l’antagonista. Lui, giunto nel mondo reale, intuisce di potersi muovere molto più serenamente e libero di quanto gli fosse concesso nel suo territorio natio ed innalza un piano d’azione per eliminare definitivamente lo Schwarzenegger-attore e con lui il personaggio di Jack Slater.
La commedia non perde assolutamente perciò i suoi toni ironici (nonostante cada leggermente in basso con omaggi a Roger Rabbit un tantino determinanti alla trama), si sbizzarrisce a mostrare un mondo alternativo - quello del film - dove Terminator, per esempio, è interpretato da Sylvester Stallone e Schwarzenegger è deriso da Schwarzenegger stesso, incapace persino di pronunciare il suo stesso cognome. E’ geniale come fa guadagnare spessore allo stereotipato protagonista una volta abbandonato il set di provenienza, o come sfrutta l’immaginazione del ragazzino per fare interpretare al suo mito ruoli impossibili e inimmaginabili (fantastico l’"Amleto" di Schwarzy oppure "La Morte" impersonata da Ian McKellen). Ma nel suo raccontare gli eccessi di una parte dell’industria cinematografica americana, “Last Action Hero“ pone anche il forte accento sulla struttura dell’esistente e del suo esatto opposto. Ci rende consapevoli di come realtà e finzione siano due dimensioni nettamente distinte l’una dall'altra, talmente lontane da non poter coesistere mai nello stesso istante. Se non per grande virtù della nostra magnifica e sconfinata immaginazione allenata a concederci - quando vuole - quei piccoli e giganteschi attimi di straordinaria follia.
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