Barbara Spinelli (Sole 24 ore – 27.02.2015) scrive:
<<Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati»>>.
La parlamentare europea ritiene che il contenuto dell’affermazione sopra citata assieme ai modi di funzionamento dell’euro abbiano determinato l’avvio del processo che avrebbe portato alla “decostituzionalizzazione – o deparlamentizzazione – delle democrazie. Si tratterebbe di una deriva che partirebbe dagli anni cinquanta del secolo scorso; essa consisterebbe nell’anteporre sempre più l’imperativo della stabilità politica e della governabilità rispetto al principio di rappresentanza e al pluralismo. La Spinelli cita a tal proposito un passo di un documento della Commissione Trilaterale che risale al 1975:
«Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».
La giornalista indica nel “plebiscito dei mercati mondiali” – da lei collegato all’altro imperativo indiscutibile della “guerra permanente al terrorismo” – la fonte di produzione di un continuo stato di eccezione,
<<dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L’efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti>>.
Effettivamente la situazione reale sembra proprio corrispondere a questa descrizione. Ma a mio parere è necessario per chiarirsi le idee comprendere se lo stato democratico possiede una autentica “autonomia” di diritto e di fatto rispetto allo stato di diritto liberale idealtipico. Se a partire da Constant, con la sua distinzione tra la libertà degli antichi e dei moderni, e da Berlin, che ha messo l’accento sull’opposizione tra la “libertà di” e la “libertà da”, si è stabilito una differenziazione netta tra queste due forme di governo politico della società è anche accaduto che riflessioni più articolate hanno definito le forme democratiche moderne come una particolare specie di liberalismo; la democrazia sarebbe, in sostanza, un regime politico del tutto subordinato ai principi di fondo di quest’ultimo. La democrazia moderna (formale) sarebbe un governo del popolo simile in questo a quella degli “antichi” ma del tutto differente nel suo concreto esplicarsi, schematicamente identificabile nell’opposizione tra governo partecipativo e governo rappresentativo. Così parla Constant nella sua celebre conferenza del 1819:
<<Tra i moderni […]l’individuo, indipendente nella vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è ristretta, quasi sempre sospesa; e se, ad epoche fisse, ma rare, durante le quali non cessa di essere circondato da precauzioni e vincoli, esercita tale sovranità, è sempre per abdicarvi. […] Perso nella moltitudine, l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita. Mai la sua volontà s’imprime sull’insieme; niente prova ai suoi propri occhi la sua cooperazione>>.
Ma sono gli scopi dei singoli individui che appaiono cambiati e questo ha portato ad un rovesciamento riguardo a ciò che risulta auspicabile e desiderabile:
<<Il fine degli antichi era la suddivisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo ciò che chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti>>.
Per altri versi la democrazia si contrapporrebbe al liberalismo nella misura nella quale volesse proporsi come un modello non semplicemente formale ma di natura anche sostanziale (governo per il popolo). Ma già il liberalismo puro appare come un governo per il popolo: esso deve intervenire il meno possibile negli ambiti privati e permettere alle relazioni mercantili di svilupparsi nella maniera più autonoma possibile; deve inoltre garantire il rispetto delle regole che determinano “l’ordine esteso di mercato” (Hayek) e i cosiddetti diritti dell’uomo, attendendosi a ciò che risulta espressamente necessario e corrispondente alle leggi “naturali” ed evitando interventi normativi “artificiosi e artificiali”. Ma la democrazia sostanziale vuole andare oltre perché alla libertà vuole affiancare l’eguaglianza, non solo negli scambi e riguardo ai diritti civili, ma anche nel limitare le diseguaglianze nel benessere individuale, nelle condizioni materiali di vita. Alla giustizia commutativa, la sola ammessa da Hayek, vuole venga affiancata la giustizia redistributiva. E’ proprio questa contrapposizione tra formale e sostanziale che – essendo venute meno le forme settecentesche e ottocentesche della dicotomia destra-sinistra (determinate da un suffragio parziale che escludeva i non “borghesi” dalla gestione della cosa pubblica) e il riferimento equivoco ad una parentela presunta e infondata con i fascismi e i comunismi – permetterebbe ancora, secondo i teorici del liberalismo di sinistra, di dare un senso nell’epoca attuale a una distinzione divenuta ormai obsoleta in occidente e non solo. In una nota al suo saggio “Destra e Sinistra” Bobbio, citando anche Severino, metteva in rilievo la possibilità che per realizzare l’eguaglianza si ritenesse necessario trasformare la libertà in un mezzo, che come tutti i mezzi risulta logorabile e può venire sostituito da uno migliore, e che facendo leva su un utilizzo “improprio” del principio di maggioranza la tensione della democrazia a realizzarsi pienamente porti esattamente al suo annullamento. Bobbio arriva, quindi, a concordare con Severino riguardo al fatto che nelle società moderne soltanto la libertà può essere considerata un fine irrinunciabile mentre l’eguaglianza e l’equità – che sono necessarie per garantire un minimo di partecipazione democratica a tutto il “popolo” - sono perseguibili solo a condizione che non intacchino l’autonomia degli individui e la loro libera interazione. La categoria di totalitarismo, interpretata in maniera non convenzionale, può servire a definire il “negativo” del liberalismo: lo stato controlla e determina tutta la “vita” dei sudditi i quali – in quanto “membra-membri” del “corpo”, cioè dell’organismo socio-statuale – hanno comunque diritto alla propria sopravvivenza proprio perché si riconoscono come parti di un tutto alla cui conservazione contribuiscono, seppure in maniera passiva, rispetto ad una elitè sacra e intoccabile. Il liberalismo risulta invece compatibile con l’autoritarismo in senso stretto nella misura in cui esso richiede, in determinati momenti di crisi, che i danni collaterali della distruzione creatrice e dello scatenamento degli animal spirits dei funzionari del capitale vengano accollati a forza a determinati gruppi sociali per recuperare posizioni nei mercati interni ed esterni. Quando il principio di maggioranza, invece, degenera in una “ribellione delle masse” la democrazia dopo un momento di esaltazione iniziale nel suo sforzo di ricondurre tutto alla comunità e di annullare l’individuo diventa incline a stabilire la sopravvivenza come valore supremo e ad innalzare il moralismo oscurantista, garantito da despoti e burocrati grigi, al vertice del corpo politico.
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Dopo il crollo del comunismo storico novecentesco si poteva pensare che toni beceri utilizzati da pensatori, per altri versi degni di grande considerazione, come Hayek e Popper (1) non risultassero più necessari ma a quanto pare siamo veramente in un epoca moralmente e intellettualmente desolata. Sul Corriere di oggi (02.03.2015) il professor Panebianco si scatena in maniera disordinata e scomposta:
<<Se esistesse un indice di moralità politica applicabile alle tirannie, Benito Mussolini otterrebbe un punteggio più alto di Vladimir Putin. Mussolini, dopo il delitto Matteotti, se ne assunse la responsabilità. Putin, invece, di fronte all’omicidio del suo avversario Boris Nemtsov, ha saputo solo parlare di «provocazione». Come peraltro è avvenuto in occasione di altri omicidi di oppositori del Cremlino. […]Varrebbe la pena di riflettere sul fatto che esiste un legame fra la politica estera e la natura dei regimi politici. La natura del regime russo – non una tirannia in senso classico ma una democrazia autoritaria – è oggi brutalmente disvelata dall’omicidio Nemtsov. Perché continuare a fingere che il neoimperialismo della Russia non abbia una stretta connessione con l’autoritarismo interno?>>
Non occorre essere dei complottisti maniacali per avere fortissimi sospetti riguardo all’omicidio di cui si parla: sia riguardo agli autori che ai mandanti. Per quanto riguarda il neoimperialismo vorremmo invitare il politologo a girarsi e a guardare anche in qualche altra direzione ed infine se vogliamo proprio parlare di democrazia dovremmo anche osservare che un popolo aggredito in varie maniere e in questo momento abbastanza isolato (i rapporti con la Cina mi pare si siano molto affievoliti) come quello russo ha bisogno di una certa compattezza e di una coesione che il culto delle regole procedurali decantate dai cantori del “paradiso dei popoli liberi” non sono molte volte in grado di garantire.
(1)Mi riferisco ai ben noti libri intitolati “La via della schiavitù e “La società aperta e i suoi nemici”