di Pierluigi Montalbano
I riti funerari sono di differenti tipologie. La pratica dell’incinerazione, caratteristica delle popolazioni nomadi, giunse nell’area siro-palestinese al seguito delle invasioni dei Popoli del Mare. Un mito di Ugarit, il porto siriano ambito da tutti i grandi imperi del passato perché crocevia degli scambi fra Asia e Mediterraneo, suggerisce la posizione dell’uomo di fronte alla morte nel Vicino Oriente. Questo mito racconta le vicende del principe Aqhat e della dea Anat, una dea cacciatrice che voleva entrare in possesso dell’arco magico del principe. La Dea offrì oro e argento all’uomo, e poi l’immortalità. Lui rifiutò e rispose: “Non mentirmi vergine, per un eroe le tue menzogne sono chiacchiere. Quale sorte può avere un mortale? Una coppa sarà posta vicino al mio capo, un’offerta funebre vicino al mio cranio. Giacchè sono mortale, anch’io dovrò morire”.
Dunque, tutti devono morire, perfino i re, così simili agli dei. Questo mito testimonia il motivo della presenza di un recipiente collocato accanto al cranio del defunto. A partire dal VI a.C., si nota una variante del rito: il defunto è sottoposto a una semicombustione. Si praticava la cremazione sul piano roccioso, ponendo il corpo in posizione supina sopra il legname. Per 30 minuti si accendeva un fuoco a temperatura di circa 500°, e al termine si deponevano i resti all’interno di una tomba a fossa.
Sempre a partire dal VI a.C., i bambini deceduti prematuramente, erano sepolti in un ambiente differente rispetto agli adulti. Le sepolture (enkytrismos) avvenivano all’interno di anfore commerciali inserite in tombe a fossa appositamente scavate.
Il tipo di sepoltura più utilizzato è quello della inumazione in una camera ipogeica che poteva variare di dimensioni ma era simile per le altre caratteristiche. L’accesso era di due tipi: a pozzo verticale o a corridoio con scalini (dromos). A partire dal IV a.C., il rito funebre prevedeva il lavaggio del defunto e la sua vestizione con un sudario o con una tunica chiusa con bottoni. A volte era preparato un sarcofago in legno smontabile, per consentirne il trasporto e il passaggio attraverso il portello di ingresso. Al termine della cerimonia la camera era sigillata con una lastra di pietra. All’interno erano gettati alcuni recipienti o piccoli vasi con unguenti profumati. Col passare del tempo, e l’aumentare del numero di corpi all’interno delle tombe, i defunti erano deposti sul pavimento delle camere, e i vasi dei corredi più antichi erano spostati e collocati negli angoli della parete vicina al portello d’ingresso. Verso la metà del III a.C., in occasione della romanizzazione della Sardegna, si ritornò verso la pratica dell’incinerazione.
Un termine che compare spesso nelle stele dedicatorie dei tofet e di altri santuari è: MLK, ossia offerta, dono, dedica. Il tofet, infatti, era un luogo nel quale erano deposte le offerte. Non si tratta di una divinità ma di un rituale. Il tofet è un santuario a cielo aperto dedicato al dio Baal Hammon e alla dea Tanìt, racchiuso in un recinto in muratura, nel quale erano deposti sul rogo e poi sepolti con particolari riti, i bambini non nati, nati morti o deceduti prima dell’introduzione nel mondo degli adulti. Nell’area del tofet, i genitori svolgevano riti tesi a ottenere dagli dei una nuova nascita. I resti dell’incinerazione erano deposti in un recipiente in terracotta e, se la richiesta era esaudita, ossia nasceva un nuovo bambino, i genitori erigevano nel luogo sacro una stele in pietra, talvolta con una iscrizione dedicatoria. Il rito di iniziazione per il passaggio nel mondo degli adulti equivaleva al nostro battesimo o alla circoncisione nel mondo ebraico e islamico. Questo rito era il “passaggio per il fuoco” di biblica memoria, ancora oggi praticato in Sardegna in occasione della notte di San Giovanni, quando si salta attraverso un falò. Le fiamme erano la soglia attraverso cui i fanciulli dovevano passare, vivi o morti.
Le tracce di questi tofet sono assenti nel Vicino Oriente e nella zona iberica, si trovano solo nel Mediterraneo centrale. Due a Tunisi (Cartagine e Sousse), due in Sicilia (Mozia e Selinunte), uno a Malta e sei in Sardegna (Karaly, Nora, Bitia, Cabras, Monte Sirai e Sulky). Il rituale comprendeva la deposizione di una stele in pietra con funzione di ex-voto nel caso in cui una famiglia che aveva perso prematuramente un bambino fosse stata allietata dagli dei con una nuova nascita. Le stele, al contrario delle urne, in gran parte perdute, si sono salvate perché nel corso dei secoli furono accantonate all’interno delle aree sacre e utilizzate per la costruzione di muri divisori o altari, contesti dai quali sono stati recuperati in età moderna. Le più antiche erano costituite da pietre oblunghe denominate betili, dalle parole fenicie bet ed el, rispettivamente casa e dio, a indicare che ospitavano divinità. Intorno al 500 a.C. fece la sua comparsa un tipo di stele somigliante ad un piccolo tempio, con tutte le componenti architettoniche. Alcune figure contenute all’interno delle celle templari subirono un’evoluzione: prevalsero le raffigurazioni iconiche, ossia personaggi divinizzati, ma a Tharos e Nora si registra la presenza di simboli aniconici come losanghe, betili o idoli a forma di bottiglia. In seguito si nota la comparsa di personaggi che tengono un disco solare al petto. e divinità che nella mano destra sorreggono il simbolo egizio ankh (simbolo della vita), mentre nella mano sinistra stringono una stola, una fascia che scende giù dalla spalla.
Nell'immagine: Tharros