Magazine Cultura
di Pierluigi Montalbano
Tra i centri urbani, Karaly e Tharros uscirono indenni dall’aggressione cartaginese. Le necropoli di Tuvixeddu, a Cagliari, e Capo San Marco, a Tharros, testimoniano un alto tenore di vita con ricchi corredi. Inoltre, la capillare occupazione delle terre coltivabili è dimostrata dalla nascita di santuari campestri dedicati a divinità salutifere presso i pozzi e le fonti. In questi templi, attraverso lo studio delle statuette votive, è evidente la volontà dei fedeli di chiedere alle divinità la guarigione dai mali più diversi. Al termine della prima guerra punica, verso la metà del III a.C., Cartagine cedette la Sicilia a Roma. Le truppe mercenarie rientrarono nella città nord-africana per essere pagati ma non ottennero soddisfazione. Aggredirono la città ma furono sonoramente sconfitti. In quegli anni la Sardegna passò sotto il controllo romano, provocando una serie di eventi bellici da parte di Cartagine che tentò di riconquistare l’isola. Approfittando della debolezza di Roma causata dalla sconfitta subita nel 216 a.C. a Canne per mano di Annibale, fu stretta un’alleanza fra le regioni interne della Sardegna e le città costiere. Si aggiunsero alcuni contingenti giunti nell’isola, chiamati da Amsicora, un ricco proprietario terriero che mal sopportava le tassazioni imposte da Roma. La coalizione affrontò i romani in campo aperto nel 215 a.C., a Cornus, l’attuale Santa Caterina di Pittinurri. L’evento bellico fu disastroso per le truppe sarde e l’isola perse l’ultima possibilità di svincolarsi dalla morsa del senato di Roma.
Ritornando al mondo funerario, è testimoniata una caratteristica interessante: i cimiteri sono collocati in luoghi che in precedenza avevano ospitato tombe appartenenti a civiltà preesistenti. Le nuove generazioni desideravano porre i propri defunti sotto la diretta tutela degli antenati. Ciò dimostra inequivocabilmente che chi giunse nell’isola nel I millennio a.C. si integrò perfettamente nel tessuto sociale sardo, acquisendone i costumi e gli usi. Quale popolo conserverebbe i propri cari nel cimitero di un nemico? Gli antichi ritenevano che ogni individuo fosse dotato di due anime (Nephesh e Ruah) e al momento del decesso una volava nel mondo dei morti, l’altra rimaneva all’interno della tomba. Il corredo funerario era destinato al sostentamento delle spoglie e si pensava che le ombre dei defunti vagassero nelle tenebre in modo non amichevole nei confronti dei viventi. Il rito funebre più conosciuto è quello dell’incinerazione. Si preparava una fossa nel terreno, o una cassetta costruita con lastre di pietra (cista litica). In questo secondo caso, il corpo era bruciato da un’altra parte e poi inserito nell’urna sistemata nella cassetta. I parenti del defunto lavavano il cadavere e lo cospargevano di sostanze oleose e profumate. Adornavano il corpo con gioielli, amuleti e altri oggetti e svolgevano le lamentazioni rituali. Al termine del rogo, i resti precipitavano nella fossa ed erano deposti alcuni vasi del corredo di accompagnamento, soprattutto piatti e coppe. Le brocche rituali più utilizzate sono due: a orlo espanso e biconica, destinate a contenere l’unguento per il corpo e il vino per la libagione. Generalmente si collocavano ai piedi del defunto. I recipienti che accompagnavano le donne erano 5, quelli per gli uomini 3 e uno solo per i bambini. I resti ossei erano poi ricoperti e sigillati con un tumulo di terra e piccole pietre. Infine si sistemava una pietra per segnalare il sepolcro.
Nell'immagine: ricostruzione di una sepoltura, in mostra al Museo Archeologico di Cagliari.
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