Il motivo del ritiro è una contaminazione da Listeria monocytogenes, un batterio che può dare origine a disturbi gastrointestinali e in alcuni soggetti a rischio può sfociare in malattie sistemiche più gravi come la meningite. Appertenente alla classe dei Bacilli, riferendosi al NCBI Taxonomy Database, esistono sei specie del genere Listeria (L. grayi, L. innocua, L. ivanovi, L. monocytogenes, L. seeligeri e L. welshimeri).
A livello di variabilità esistono diversi sierotipi di cui i più comuni, nell’infezione che riguarda gli esseri umani, sono: I/2a, I/2b e 4b.
A livello ecologico-ambientale, si tratta di un batterio che trova come suoi habitat preferiti il suolo, l’acqua, il fango, il foraggio normale e quello fermentato, ovvero quello insilato. A tale proposito si è notato che l’utilizzo di questo foraggio direttamente nell’alimentazione animale, aumenterebbe l’incidenza della listeriosi negli animali.
Gli animali che possono essere colpiti dalla Listeria monocytogenes non sono solo gli animali da allevamento ma anche quelli domestici e selvatici, dai mammiferi più comuni agli uccelli includendo anche delle specie di pesci e molluschi e ovviamente l’uomo.
La Listeria si può riscontrare nelle feci di circa il 10% della popolazione animale e umana, ciò è anche legato al fatto che questo batterio riesce a sopravvivere molto bene, pur non essendo un batterio sporigeno, sia al freddo, al caldo, e all’essiccamento, riesce infatti a svilupparsi anche in condizioni di temperatura inferiore ai 3°C.
I batteri riescono dunque anche a sopravvivere in ambienti industriali, come le industrie alimentari, dove la contaminazione può rappresentare un vero problema.
In seguito al contatto con la Listeria monocytogenes si può manifestare un quadro sintomatologico caratterizzato, ad esempio, da meningoencefalite e/o setticemia sia nei neonati sia negli adulti; infezioni intrauterine o cervicali che possono causare aborto.
Nelle donne incinte l’infezione non si manifesta nella mamma, che resta in una situazione asintomatica, ma è particolarmente pericolosa per il feto al quale viene trasmessa l’infezione, ciò che può causare la morte fetale, o bambini che al momento della nascita presentano setticemia o meningite.
L’aborto si può verificare nella seconda metà della gravidanza stessa, cioè dal momento in cui la madre ha contratto l’infezione nell’ultimo trimestre.
I sintomi della meningoencefalite sono: la febbre, il mal di testa, nausea, vomito con evidenti segni di irritazione della meninge, ai quali si possono aggiungere; delirio, choc, coma o collasso. Inoltre si possono aggiungere endocardite, lesioni del fegato e altri organi, lesioni cutanee pustolose.
Molto più sovente si può avere solo una malattia lieve con una sintomatologia tipo influenzale; febbre e sintomi gastrointestinali, lesioni papulari sulle mani e le braccia derivate dal contatto diretto con il materiali infetto.
Il decorso: nei neonati colpiti la mortalità è purtroppo molto elevata: potendo raggiungere il 50% quando si manifesta nei primi quattro giorni di vita. Anche negli adulti la mortalità può essere alta.
Per ciò che concerne la terapia: si cura con antibiotici, soprattutto ampicillina o penicillina. La dose infettiva si ipotizza che vari in base alla tipologia di ceppo e alla suscettibilità della persona contraente, ovviamente in caso di bambini, anziani e immunodepressi è più facile che anche una piccola dose sia già molto aggressiva.
A livello d’indagine si procede con esami al microscopio per valutare la presenza di bastoncelli nel meconio (neonati) oppure nel liquido cerebrospinale. Si procede poi nell’isolamento del batterio dal fluido cerebro-spinale, liquido amniotico, meconio, sangue ecc., l’importante è saperlo ben differenziare da altri tipi di batteri similari. In sintesi si procede con un’emocoltura del sangue dopo aver comunicato al laboratorio di analisi che si hanno dubbi su questo tipo di batterio e non su altri. Altri metodi diagnostici possono essere la biopsia del fegato.
Il tempo richiesto per le tecniche d’identificazione è variabile dalle 24 alle 48 ore di coltivazione, poi seguono altri test, in ogni caso sono necessari circa 7 giorni seguendo i metodi tradizionali.
Per quello che riguarda la diffusione, si tratta di un’infezione che molto raramente può manifestarsi a livello epidemico, ma molto più frequentemente a livello isolato.
I dati epidemiologici americani dicono che il 30% dei casi è rappresentato da neonati con età inferiore al mese e tra le persone più esposte ci sono i bambini, i giovani e le persone immunocompromesse, le donne incinte, e coloro che spesso fanno uso terapeutico di corticosteroidi, per contrastare il cancro o per terapie immunosopressive antirigetto, o per combattere l’AIDS, ma anche malati di colite ulcerosa, diabetici, asmatici.
La trasmissione avviene attraverso il canale alimentare, in modo preferenziale. Questa è la modalità più semplice per il batterio di entrare nell’organismo umano e insediarsi. Tramite la contaminazione primaria (quando l’alimento si è contaminato a livello agricolo) oppure per contatto durante la lavorazione (questo accade quando gli impianti sono contaminati).
Pertanto Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, raccomanda massima allerta e di rispettare le basilari norme igieniche anche se si può ridurre al minimo il pericolo di contrarre la listeriosi con gli accorgimenti opportuni. Le categorie a rischio dovrebbero evitare di consumare i prodotti citati. Per tutti gli altri la regola principale è avere cura nella conservazione degli alimenti,soprattutto nel frigorifero. Mentre si raccomanda di mantenere la temperatura del frigorifero tra i 4 e i 5 gradi, anche se la maggior parte dei frigoriferi domestici li supera abbondantemente arrivando agli 8. Inoltre la Listeria sopravvive alle temperature basse del frigorifero, ma muore con il calore della cottura.
Lecce, 18 luglio 2014
Giovanni D’AGATA