RUBEN
Con Ruben feci amicizia invece un pomeriggio. Avevo deciso di farmi una pinta di birra al Pub “The Vashel, poco distante da Leicester Square, prima di riprendere il servizio serale ai gelati. Il pub, da fuori sembrava uguale a tanti altri, disposto ad angolo retto su due strade, con i vetri affumicati a protezione della irrinunciabile privacy degli avventori, gli infissi esterni in legno massiccio e scuro e le insegne gigantesche sugli stipiti.
Ma appena vi entravi, ti dava l’impressione che un vascello si fosse arenato secoli prima in quell’angolo di Londra, come per magia, e poi con il tempo qualcuno avesse avuto la brillante idea di ricavarci un pubblico esercizio, aggiungendovi il necessario corredo di mobilio, stoviglie e suppellettili, lasciando però inalterato tutto il resto: l’albero centrale, il timone, le sartie, le paratie e le fiancate di legno lucidate a specchio, lungo le quali erano rimasti disposti numerosi cannoni e colubrine.
Lui era lì col suo gruppo provava gli strumenti, in vista del concerto che dovevano tenere quella sera stessa. Di vista ci conoscevamo già, ma non avevamo mai avuto modo di parlare insieme.
Il ponte centrale era occupato da un lungo bancone, lungo il quale svettavano numerosi sgabelli dal fondo in legno, fissati al suolo con un cilindro metallico. Di fronte al bancone erano disposti in buon ordine numerosi tavolini, anch’essi fissati al suolo, come se davvero fossero stati studiati per affrontare le oscillazioni di un vascello in navigazione. In quella che poteva essere la prora, era stato ricavato uno spazio idoneo ad ospitare gli strumenti di una band, anche se Ruben suonava la chitarra accompagnato solo da un batterista e da un basso. Delle scalette molto strette, anch’esse in legno, conducevano dal ponte centrale allo spazio di poppa, ove sul fondo l’architetto aveva abilmente allestito un bar più intimo e raccolto, che in quel momento era in ombra e deserto.
Al bancone, data l’ora, non c’era molta gente. L’unico inserviente, dopo avermi servito la birra, si rimise a sistemare certi boccaloni e certi bicchieri alle sue spalle. I tre si sbizzarrirono un po’, eseguendo senza un ordine apparente alcuni brani, che a volte interrompevano, per poi riprendere dopo avere scambiato qualche commento tecnico.
Quando decisero per una pausa più lunga si avvicinarono al banco. Immaginai che avessero alcuni drinks a disposizione offerti dalla casa (il numero, in effetti, varia da pub a pub, a seconda della generosità del gestore). Per non sbagliare volli offrirgliene uno io, anche perché volevo complimentarmi con loro.
Accettarono volentieri il drink e i complimenti. Ma prima ancora di bere presero i bicchieri e mi fecero cenno di seguirli al bar che si trovava a poppa.
Vi occupammo un tavolino in un angolo riservato da dove notai che si poteva vedere, senza essere visti, il transito lungo le scalette che lì conducevano.
Gli amici di Ruben avevano il tipico aspetto degli artisti eccentrici e sballoni. Con quella loro aria trasandata e picaresca, se non li avessi visti suonare con Ruben, li avrei potuti anche scambiare per quei personaggi quasi mitici, a metà strada tra l’emarginazione sociale e l’attività illegale, che a Londra trovavi numerosi in certi quartieri popolari come Notting Hill Gate, Camden Town o Frisbury Park dove neanche la polizia metropolitana si fidava a di andare, se non in assetto antisommossa e in congruo numero.
Il batterista, che si chiamava Jon (senza la “h”, ci tenne a precisare, perché deriva da Jonathan), quando seppe da Ruben che vendevo gelati disse indicandomi: “You cool!”
L’espressione, seppure ambigua, era stata pronunciata con simpatica spontaneità. Io, per non sapere né leggere, né scrivere (come avrebbe detto il mio vecchio), la interpretai in senso letterale, ed altrettanto spontaneamente risposi, facendo lo stesso suo gesto, con l’indice della mano destra rivolto verso di lui e ridendo come lui: “And also fresh!”
A Ruben piacque la mia risposta, perché ridendo disse rivolto all’amico: “Per forza. Lui vende anche bibite fresche, mica solo gelati!”
La risposta dovette piacere anche a Jon, perché rivolto al bassista disse: “ Ehi, Phil, caccia fuori quel joint, che il nostro amico “fresh and cool” ama fumare! Non è vero?”, concluse rivolto a me.
-“Qualche volta!”- risposi io, mettendomi sulle labbra quella artigianale sigaretta che Phil prontamente mi aveva offerto, dopo l‘invito di Jon.
-“E’ confezionata con olio libanese, sai?”- mi disse Phil, facendomi accendere dal suo accendino.
- “E’ O.K.”- risposi io, passandolo a Ruben dopo due profondi tiri.
Ruben disse agli amici che già mi aveva visto, qualche volta, al lavoro “nella piazza”, come la chiamavano tutt’e tre, senza nominarla, e aggiunse scherzando di avermi visto sempre “very busy” (mimò in maniera simpatica le azioni che svolgevo nel servire i gelati alla macchina).
Ridemmo tutti insieme della sua buffa imitazione.
Ruben aveva un sorriso aperto sui denti un po’ larghi e inscuriti per il fumo, che sembravano più vecchi di quanto non mostrasse la sua giovanile figura alta e robusta e la sua folta capigliatura nera e un po’crespa. Lo sguardo che leggevi nei suoi occhi castani e malinconici era lucido e calmo.
-“ Ti è piaciuto il concerto?”- mi domandò poi, forse per rompere il silenzio, ripassandomi il joint. Io feci per passarlo a uno degli altri due, ma Ruben mi fece notare che si erano messi da parte e stavano confezionandone un altro.
- “ Questo è tutto per noi due!”- aggiunse ripassandolo a me, dopo averlo fumato per un po’.
Gli risposi di sì e gli chiesi notizie del loro repertorio. Era costituito da molti pezzi di sua composizione, i cui testi si ispiravano alle radici più originarie ed autentiche del movimento rock e parlavano delle sue origini proletarie, della lotta di classe, della ribellione contro la società degli adulti e le sue istituzioni più conservatrici, inneggiando anche alla libertà sessuale. Altri testi erano più adatti agli arpeggi ed alle sonorità blues con cui li aveva musicati, e parlavano di amori delusi, di nostalgie giovanili, di mondi ideali. Li aveva composti diversi anni prima, quando ancora frequentava l’Art School di Londra (dove mi disse, senza troppa ostentazione, che aveva conosciuto David Bowie, Jimmy Page, Keith Richard, Pete Townshend ed altri nomi illustri, che si erano affermati nel mondo dorato della musica rock).
Ma lui si era rifiutato di vendere la sua arte e le sue canzoni allo star system, convinto com’era che l’unità con la base del movimento (cioè con i fans musicali) l’artista rock poteva mantenerla soltanto suonando dal vivo e condividendo nel concerto le stesse loro emozioni; mentre incidere dischi significava l’esatto contrario, spezzare cioè l’unità del movimento, relegando i divi in una dorata solitudine, staccandoli emotivamente e definitivamente dai propri sostenitori.
Aveva scelto così di guadagnarsi da vivere, all’inizio suonando la chitarra nelle piazze, nelle strade o nelle stazioni metropolitane; si era poi creato con quel suo gruppo, degli spazi importanti nei pubs e nei clubs di Londra che gli consentivano di continuare a vivere le impagabili emozioni che solo i concerti riescono a dare all’artista, quando la musica scorre bene ed il pubblico è rilassato e felice e tutti, artisti e spettatori, in quei magici momenti, dimenticano se stessi ed i loro problemi.
E non t’importa più di essere un divo, ma cerchi solo di lasciarti andare per sempre a quella sensazione di dolcissimo abbandono.
Finimmo poi a parlare lui della sua vita, ed io della mia, come se fossimo stati amici da sempre. Quel tono confidenziale sembrò farlo scivolare verso una china di malinconia.
-“E poi, in fondo, ogni uomo ha la sua vita, il suo destino scolpito nel cervello”- concluse con amarezza – “ o magari scritto da qualche parte nel Cosmo! Se tu ci credi, ovviamente!” – aggiunse infine, tentando di sdrammatizzare e di ridare alla conversazione quel tono compassato, quasi sospeso che aveva mantenuto sino ad allora!
-“ Vuoi dire, Dio, non è vero?” – interloquii invece io, in tono serio.
- “ Non lo so. Forse…..”- rispose senza dare troppa importanza alle parole, alzandosi in piedi.
- “ Ce ne andiamo?”- disse poi rivolto ai due amici, che avevano passato il tempo a fumare in silenzio.
Li seguii di buon grado, anche se avrei preferito che quella piacevole chiacchierata non fosse finita lì.
Fuori, in strada, cominciavano a risplendere le luci delle insegne e delle vetrine dei cinema, dei negozi, dei teatri e delle discoteche. La Londra notturna muoveva i suoi primi passi verso un altro intermezzo di tripudio e di follia da contrapporre alla grigia routine del giorno.
-“ Al prossimo concerto in piazza vengo a farmi un bicchiere da te!” – mi disse Ruben dirigendosi con i suoi amici verso una stradina che li avrebbe portati a casa, nel quartiere di Soho.
- “Be cool!”- mi fece Phil, a mo’ di saluto.
- “ And also fresh!”- gli fece eco Jon levando due dita della mano destra in segno di saluto.
- “ E non fare come Jim che ci metteva sempre troppa acqua”- aggiunse Ruben in tono scherzoso voltandosi sulla spalla sinistra e salutando ancora con un gesto della mano.
Li osservai poco più oltre, con il loro passo dinoccolato, che quasi sembravano danzare, con i capelli lunghi al vento e il loro abbigliamento colorato ed eccentrico, incrociarsi con un tipo in abito grigio e cravatta nera, che portava in mano una valigetta 24 ore che veniva verso di me, in senso contrario.
Fu un attimo: mi sembrò quasi che l’uomo camminasse senza testa e che la trasportasse in quella valigetta squadrata.
…continua…