Magazine Cinema
durata, 122'
Il senso della vita connesso con la presenza di un altrove geografico sono alla base di questo nuovo episodio dedicato al Marigold Hotel, il residence indiano che abbiamo imparato a conoscere attraverso le avventure della pittoresca comunità, raccontata nel primo dei due film diretti da John Madden. La particolarità di quel soggiorno, è bene ricordarlo, consisteva nel fatto che la clientela dell’hotel vi abitava in pianta stabile, alla maniera di un buen retiro in cui passare il resto della vita. Salvo eccezioni che, nel caso di questo “Ritorno al Marigold Hotel”, comprendono tra le altre, la temporanea new entry di Richard Gere, chiamato a prestare fascino e carisma all’aspirante scrittore che si innamora della madre di Sonny (il Dev Patel di "The Millionaire"), nel frattempo impegnato a trovare investitori in grado di sponsorizzare la costruzione di un nuovo albergo. La presenza del divo americano però, non è solo l’espediente narrativo necessario a movimentare l’esistenza della pittoresca comunità, perché l’interprete di “Pretty Woman”, per stile di vita e background filosofico, costituisce quel surplus di credibilità in grado di legittimare i sentimenti di armonia e di condivisione che stanno alla base di questa nuova storia. Per il resto "Ritorno a Marigold Hotel" segue il canovaccio del suo predecessore, con l'esotismo dell’ambientazione e i clichè tipici delle storie dedicate alla terza età, ravvivati dagli sequenze dedicate ai preparativi di nozze di Sonny e della sua bella fidanzata, inserite ad arte per riprodurre la vitalità festosa e colorata del cinema bollywoodiano, ripreso nelle cadenze musicali e nelle scene di ballo in cui si cimentano i giovani innamorati. John Madden, regista di belle speranze poi vanificate da una serie di scelte poco fortunate, si mette a disposizione della storia con una regia convenzionale e però attenta ad adeguarsi alla sobrietà dei suoi interpreti (tra cui ricordiamo Maggie Smith e Judi Dench), capaci di supplire agli stereotipi della sceneggiatura con l’understatement tipico di chi non ha più nulla da dimostrare.
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