Magazine Cinema
Arriva, come sempre, il mio personale archivio di visioni dell’anno che sta per giungere al termine. Non si tratta di una classifica convenzionale, ma di una sorta di piccolo atlante di suggestioni del 2015: oltre ai film usciti in sala, prendo in considerazione anche le visioni festivaliere e vari altri recuperi lontani dalle sale. Ci tengo sempre a sottolineare che questo giochino da cui non riesco a sottrarmi è altamente, fieramente instabile: è un magma di titoli non troppo ponderati, sono scintille, piccole esplosioni di cuore prima ancora che di cervello. Come al solito il modo migliore per partire è iniziare da ciò che manca in questa lista: non troverete gli ultimi film di registi che amo come Apichatpong Weerasethakul, Hou Hsiao-hsien, Hong Sang-soo, German jr., De Oliveira, Larrain e molti altri perché, purtroppo, non sono riuscito ancora a recuperarli. In attesa di poterli inserire in futuro, vi auguro buona lettura e, soprattutto, buone visioni!
L’oltre – Cronache dal Paradiso
(dove non può esistere paragone alcuno, perché nel regno dell’oltre non ci sono numeri o stellette che tengano. L’ordine, di conseguenza, è puramente casuale)
BLACKHAT Michael Mann
MAD MAX: FURY ROAD George Miller
RITORNO ALLA VITA Wim Wenders
TROIS SOUVENIRS DE MA JEUNESSE Arnaud Desplechin
THE WALK Robert Zemeckis
IL PONTE DELLE SPIE Steven Spielberg
FRANCOFONIA Aleksandr Sokurov
RABIN, THE LAST DAY Amos Gitai
INSIDE OUT Pete Docter, Ronnie del Carmen
OFFICE 3D Johnnie To
11 MINUT Jerzy Skolimowski
PER AMOR VOSTRO Giuseppe M. Gaudino
AMERICAN SNIPER Clint Eastwood
BELLA E PERDUTA Pietro Marcello
Gemme preziose
(Qui e nelle prossime due "sezioni" c’è un ordine, più istintivo che ragionato, dall’alto in basso).
45 ANNI Andrew Haigh
CAROL Todd Haynes
TURNER Mike Leigh
GLI UOMINI DI QUESTA CITTA’ IO NON LI CONOSCO. VITA E TEATRO DI FRANCO SCALDATI Franco Maresco
IN JACKSON EIGHTS Friedrick Wiseman
MOUNTAINS MAY DEPART Jia Zhang-ke
AFTERNOON Tsai Ming-liang
ANANKE Claudio Romano
IT FOLLOWS David Robert Mitchell
FOXCATCHER Bennet Miller
SANGUE DEL MIO SANGUE Marco Bellocchio
VIZIO DI FORMA Paul Thomas Anderson
RABO DE PEIXE Joaquim Pinto e Nuno Leonel
LOUISIANA Roberto Minervini
UNA NUOVA AMICA François Ozon
MIA MADRE Nanni Moretti
NON ESSERE CATTIVO Claudio Caligari
IL NEMICO INVISIBILE Paul Schrader
IN THE HEART OF THE SEA – LE ORIGINI DI MOBY DICK Ron Howard
MICROBE & GASOLINE Michel Gondry
TIMBUKTU Abderrahmane Sissako
SAUL FIA László Nemes
MATE-ME POR FAVOR Anita Rocha da Silveira
THE WHISPERING STAR Sion Sono
MISSION IMPOSSIBLE: ROGUE NATION Christopher McQuarrie
IL VIAGGIO DI ARLO Peter Sohn
A BIGGER SPLASH Luca Guadagnino
THE VISIT M. Night Shyamalan
LA CALLE DE LA AMARGURA Arturo Ripstein
JIA Shumin Liu
DAL RITORNO Giovanni Cioni
EVA NO DUERME Pablo Aguero
L’HERMINE Christian Vincent
JUPITER – IL DESTINO DELL’UNIVERSO Andy & Lana Wachowski
HUNGRY HEART Saverio Costanzo
SICARIO Denis Villeneuve
THE MARTIAN Ridley Scott
EX MACHINA Alex Garland
DHEEPAN Jacques Audiard
A FLICKERING TRUTH Pietra Brettkelly
MAN DOWN Dito Montiel
JURASSIC WORLD Colin Trevorrow
BAGNOLI JUNGLE Antonio Capuano
EQUALS Drake Doremus
SPOTLIGHT Tom McCarthy
LO CHIAMAVANO JEEG-ROBOT Gabriele Mainetti
INTO THE WOODS Rob Marshall
THE EVENT Sergei Loznitsa
ANT-MAN Peyton Reed
EL CLAN Pablo Trapero
GIOVANI SI DIVENTA Noah Baumbach
TRUTH James Vanderbilt
Sospesi nel limbo
BEHEMOTH Zhao Liang
HITCHCOCK/TRUFFAUT Kent Jones
JUNUN Paul Thomas Anderson
ABLUKA (FRENZY) Emin Alper
EVEREST Baltasar Kormákur
COSMOS Andrej Zulawski
IL RACCONTO DEI RACCONTI Matteo Garrone
GIRLS LOST Alexandra-Therese Keining
THE FIGHTERS – ADDESTRAMENTO DI VITA Thomas Cailley
THE DANISH GIRL Tom Hooper
MARGUERITE Xavier Giannoli
SPECTRE Sam Mendes
MONSTER HUNT Roman Hui
GRANDMA Paul Weitz
AMAMA Asier Altuna Iza
THE FORBIDDEN ROOM Guy Maddin
STAR WARS: IL RISVEGLIO DELLA FORZA J.J.Abrams
PIXELS Chris Columbus
MUSTANG Deniz Gamze Erguven
EXODUS – DEI E RE Ridley Scott
E poi giù all’Inferno
BLACK MASS Scott Cooper
TOMORROWLAND Brad Bird
HEART OF A DOG Laurie Anderson
DE PALMA Noah Baumbach e Jake Paltrow
LAND OF MINE Martin Zandvliet
WINTER OF FIRE Evgeny Afineevsky
LEGEND Brian Helgeland
ROOM Lenny Abrahmson
IRRATIONAL MAN Woody Allen
MARAVIGLIOSO BOCCACCIO Paolo e Vittorio Taviani
INTERRUPTION Yorgos Zois
CENERENTOLA Kenneth Branagh
THE IMITATION GAME Morten Tyldum
EXPERIMENTER Michael Almereyda
L’ATTESA Pietro Messina
TERMINATOR GENESIS Alan Taylor
WHIPLASH Damien Chazelle
ANOMALISA Charlie Kaufman
UNBROKEN Angelina Jolie
FREEHELD Peter Sollett
LA DELGADA LINEA AMARILLA Celso Garcia
BIG EYES Tim Burton
THE ENDLESS RIVER Oliver Hermanus
THE CONFESSIONS OF THOMAS QUICK Brian Hill
BEAST OF NO NATION Cary Fukunaga
GO WITH ME Daniel Alfredson
REMEMBER Atom Egoyan
YOUTH Paolo Sorrentino
Appendice: parole in disordine su primi piani, duelli e notti blu
Solo uno sguardo, un ultimo sguardo prima di morire. Gli occhi vitrei, congelati, tristissimi di chi è ancorato alla terra ma fissa il cielo: ecco come risplende ammaliante il seguito impossibile di Miami Vice. Nell’ultimo, potentissimo capolavoro di Michael Mann emerge l’estremo, dilagante romanticismo di un autore che scavalca costellazioni virtuali, realtà cibernetiche, hackeraggi invisibili per tornare nientemeno che ai corpi. Mann supera i regimi numerici della rete per lasciarsi andare alla materia, allo scontro di un cinema che (r)esiste, all’ultima, roboante mascherata post-ciminiana di un carnevale fatale. Blackhat supera le velocità extracorporee per ritornare al peso stesso del duello: dal file digitale alla massa corporea, dal virus elettronico allo squarcio fisico. Ed è questo il cortocircuito più grande del 2015 cinematografico: ritagliarsi attimi di tempo per sfuggire alle metastasi cancerogene del mondo, intercettare sguardi perduti capaci di cristallizzare la durata, interrompe il flusso dirompente dell’azione. Come nel 2006, quando Colin Farrell, malinconico come mai, perdeva il suo sguardo nel cielo e viveva un’avventura melò fuori-formato che spezzava i geniali disequilibri del film. Nessun cineasta come Michael Mann è in grado di astrarre il racconto, di interessarsi alle particelle, ai fuori-campo, alle deflagrazioni stesse dell’immagine all’interno delle rovine di un genere. Perfino più di Wong Kar-wai, perfino più di The Grandmaster (per certi versi opera affine a Blackhat).
E mentre l’action-movie si trasforma nel desiderio infinito di salvare quei corpi e quei cuori che noi siamo, George Miller, rockstar impazzita reduce da Babe il maialino coraggioso, si fa carico di blindocisterne, velocità supersoniche e rock acrobatico, per cantare le gesta della sua invincibile guerriera Furiosa e del suo mitico Max. Nelle notti fatate di Mad Max, con quel blu pittorico di zulawskiana memoria (canta ancora il globo d’argento), riscopriamo la magia di una luce calda che accende, scalda, irradia un cuore smarrito in un campo deserto. Mad Max: Fury Road è il miglior action-movie da tanti anni a questa parte, perché svuota completamente la narrazione e ci lascia in balìa di un’eccitante, febbricitante estasi visiva: inebriati da luci, colori, corpi e testosterone, ci lasciamo andare al piacere assoluto ed eroticissimo del movimento.
Se poi volessimo fare i conti con il vuoto, richiedere al cinema un ennesimo volo antigravitazionale, dovremmo salire a bordo del nuovo flight cinematografico di quel geniaccio di Robert Zemeckis, cantore sacro della nostra infanzia. Desideriamo ancora rimanere in bilico con lui in The Walk e vorremmo passeggiare su quel filo per tante altre vite, tanti altri spazi, tanti altri mondi. Mai come oggi lo spettatore rischia seriamente di farsi male, di cadere in quello spaventoso vuoto che è ai suoi piedi (il 3D inverso più bello che si sia mai visto: l’immagine non ci viene più addosso, siamo noi a scivolarle dentro). E ripensiamo a Doc e Marty mentre scorrono i sogni funamboleschi di un cineasta che, film dopo film, rimane sempre più in piedi sul gorgo del nulla. Le Torri Gemelle sono ancora a New York, al cinema, solo al cinema! Per ricordarci che un unico bellissimo gesto può riuscire a redimere il reale. Per ricordarci che si può ancora fare un film à la Frank Capra perfino nel 2015. Lo sa Zemeckis, lo sa ancora di più Steven Spielberg. Con Tom Hanks che fa James Stewart, i cerchi si chiudono, e vediamo una luce, un bagliore, un biancore che non esiste in nessun altro luogo sulla terra se non nel cinema di papà – quello consumato dai nastri visti rivisti troppe volte. Il Ponte delle Spie, da vedere insieme a The Terminal, è l’ennesimo, commovente atto di fiducia nei confronti dell’uomo da parte del Gigante buono.
Ma dov’è l’altra parte? Le immagini di repertorio, le tragedie del contemporaneo, il reale che imita sempre di più la finzione, fino al paradosso estremo di un cinema del reale. Il mantra cinematografico di quest’anno non può che essere l’assassinio di Rabin, l’immagine mancante, la voce che ci richiama, l’immagine-destino di un intero popolo. Si spalanca allora l’ultimo gigantesco film di Amos Gitai come se fosse il rebus cruciale di un’intera cultura. Rabin – The Last Day (che arriva dopo il folgorante, solitario Tsili) è il film sul giorno dopo (ma anche il film del giorno dopo), l’opera che più di ogni altra può, deve, vuole, può guardare avanti, ma sa che passato, traccia e cenere sono materia del futuro. Un po’ come Francofonia di Aleksandr Sokurov, entrambi i film sono oggetti liquidi, dove l’immagine è camaleontica, il montaggio si fa gesto fluido, incostante, fuori dal tempo (nel suo sforzo di essere sempre e comunque nel tempo). Non c’è differenza tra il girato di oggi e il girato di ieri, tra le preziose immagini dell’Istituto Luce e un primo piano fragilissimo del Pulcinella di Bella e perduta.
Siamo in totale (con)fusione.
Pietro Marcello gira su pellicola rovinata mentre ci regala la più bella fiaba del cinema italiano (quella che racconta un mondo fatto interamente di soglie), quel folle di Skolimowski allestisce diabolicamente il canto funebre del digitale mentre annega in un mare di pixel (eppure rimane sempre un punto nero ribelle). 11 Minut, ovvero tutto il tempo prima della fine del mondo (ma non siamo in 4:44, qui la fine non è l’attesa ma è l’inizio, la composizione stessa dell’immagine numerica). Dicevamo, 11 Minut è il film sul cinema che è e che sarà, quello che si prende tempo, che gioca a fare De Palma perché sa che non c’è più percorso, non c’è più traiettoria che non preveda una smisurata, colossale implosione (che film enorme il suo, così diverso, così lontano da Essential Killing eppure già lì, incastrato in quello stesso, generosissimo sguardo). Sommersi da questo mare magnum di immagini non rimangono che urla mute (A Bigger Splash), sedie lasciate vuote (Francofonia e Afternoon), astrazioni di un viaggio che si vorrebbe sempre ricominciare (Carol), ultimi balli prima che la nuova faccia del capitalismo faccia capolino (Office 3D) e primi piani che aprono varchi temporali (Ananke) mentre sognano nuovi cinema possibili, nuove vite che nascono dai resti del mondo: il film di Claudio Romano è un vero e proprio gesto politico, una piccola, grande nuova aurora.
Rimane il desiderio grandissimo di vedere il corpo, il volto, l’occhio di quel cadavere perfettamente conservato in un ghiacciaio: lei, eterna giovinezza, lei, volto trasognato che supera il tempo, lei, immagine negata, lei, amata, spensierata gioventù. E’ l’immagine più forte di 45 anni proprio perché è l’unica immagine che non c’è. Sei felice che non ci sia, ma la desidereresti così ardentemente da convincerti di averla già vista, da essere persuaso che quella donna sia nel film (un po’ come Jessica Chanstain che c’è/non c’è in To The Wonder). Altrove, si giocano le sorti del mondo, si parla di guerra osservandone causticamente i riflessi, le schegge impazzite, i momenti in cui si può ancora tornare uomini. Il proiettile in ralenti che buca lo schermo in American Sniper, l’ultimo incompreso tassello di Clint Eastwood. Il film che racconta l’educazione alla guerra, l’omicidio come gesto automatico e, ancora di più, la maledizione terribile di riportare il conflitto tra le mura domestiche. Gli fa eco il più acerbo, ma non meno interessante, Man Down dove il reduce americano è il soldato che arriva a identificare il nemico con la propria moglie. E’ l’America suicida, quella che si autodistrugge, che mina le sue fondamenta pur di continuare a vivere.
Ma il 2015 è stato anche l’anno della miopia critica nei confronti di alcuni grandi, sottovalutatissimi ritorni. E’ stato l’anno di Wim Wenders che, con Ritorno alla vita ci regala uno dei più intimi giochi di specchi del suo cinema. Un personalissimo hereafter dominato da un montaggio interessato solo agli echi privati, alle avventure del cuore, alle stagioni dell’amore, ai riflessi di ogni nostra singola azione. E’ stato l’anno del fischiato Marco Bellocchio che realizza l’unico (l’ultimo) film possibile su un gesto cinematografico sorto dalle ceneri, dagli allori, tra le derive vampiresche del mondo. Non rimane che un Nosferatu in Sangue del mio sangue e la consapevolezza amara, disincantata e dolente, che Bobbio - e solo Bobbio - sia il mondo. Infine, mentre Caligari regala il suo ultimo, splendido Amore Tossico e mentre Desplechin realizza una perla che assomiglia al diario dei nostri genitori, Giuseppe Gaudino gira un film per amor nostro, o meglio Per amor vostro: il primo piano della Golino, a cuore aperto, è la vera, straziante epifania di quest’anno. E di fronte a una Napoli mai vista e tutta mentale, ti ritrovi ad amare questo piccolo grande film come non avresti mai pensato…e ora, in attesa del nuovo anno che inizierà con l’amato Terrence Malick, tanti auguri a tutti e buone visioni!
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