Scritto da: Anna
Natalia Ginzburg, Lessico famigliare (Einaudi, 2014, pp. 280, € 12). Durante una delle mie “scorribande” nell’immensa e caotica libreria di famiglia, ho ritrovato un libro che avevo letto durante l’adolescenza e che mi aveva affascinato moltissimo (ovviamente me ne sono impossessata, ma tanto ne abbiamo tre copie, non se ne è accorto nessuno!), si tratta di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg.
Sono consapevole che non si tratta della novità letteraria del momento e che con altissime probabilità quasi tutti l’avranno già letto, ma, a mio modesto avviso, è un racconto eccezionale, di quelli che rimangono nel cuore, che ti procurano una sensazione a metà tra l’ilarità e la commozione ogni volta che ci ripensi…perché, in fondo, chi non ha un proprio “lessico famigliare”: quell’insieme di usanze, abitudini e modi di dire che ci caratterizzano? Se potessi scegliere un libro che avrei voluto scrivere, personalmente, opterei senz’altro per questo (anche se non mi dispiacerebbe avere le capacità per poter scrivere la Divina Commedia o Guerra e Pace).
Si tratta di un racconto autobiografico in cui l’autrice, con ironia e forse una lieve nota nostalgica, narra le vicende della propria famiglia d’origine, partendo dai ricordi d’infanzia.
Il romanzo inizia con la descrizione delle abitudini e soprattutto delle espressioni in uso nella famiglia Levi, famiglia borghese di origini triestine ma emigrata a Torino per il lavoro del padre, professore universitario di anatomia umana assai noto anche all’estero per le sue ricerche, di origine ebraica, sposato, con grande disappunto della madre, ad una donna cattolica, anche se “fortunatamente non praticante”, di origini milanesi con contaminazioni triestine.
La descrizione fa entrare il lettore da subito nel clima e nell’ambiente familiare “il tempo di via Pastrengo” (espressione usata dalla madre per ricordare i primi anni a Torino, nella via dove abitavano con ancora tutti i figli a casa), rievocato attraverso i modi di dire, le abitudini ed i comportamenti dei genitori di cui l’atmosfera domestica era impregnata. Il padre burbero, iroso, inflessibile e sicuro di sé, con un giudizio sempre pronto su tutto e tutti, figli e moglie compresi, amante della montagna e dell’integrità fisica e morale; ma anche umano e paterno, preoccupato ai limiti del patologico per il futuro della famiglia e dei figli. La madre allegra, spensierata e volubile, chiacchierona, complice ma anche lamentosa e incostante. Attorno a queste figure così cruciali che prendono vita davanti ai nostri occhi al dipanarsi della narrazione, evocate con verità e amore dalla nebbia dei ricordi d’infanzia, ruotano altri “personaggi minori” le cui vicende si intrecciano con quelle dei membri dalla famiglia: amici di infanzia o di famiglia, parenti improbabili dai nomi e dalle professioni stravaganti come il nonno Parente e la nonna Dolcetta o lo zio Demente che lavorava all’ospedale psichiatrico, le donne di servizio, le sarte e tanti altri personaggi che raccontano della società torinese del primo dopo guerra. Tutte le vicende, infatti, senza pretese di esaustività o di verità storica, sono strettamente legate al contesto culturale, socio-politico di quegli anni, fino ad intrecciarsi con l’avvento del nuovo conflitto mondiale e la persecuzione degli ebrei.
Ciò che però, più di ogni cosa colpisce e rimane al lettore, è proprio quel “lessico familiare” che racconta di abitudini, usanze, tradizioni che contraddistinguono La famiglia, che creano quel legame magico e tutto speciale che solo i suoi membri possono comprendere appieno.
«Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’un con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire: – non siamo venuti a Bergamo per fare campagna – o – De cosa spussa l’acido solfidrico, – per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi o parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’un con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza di un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra, quando uno di noi dirà – Egregio signor Lipmann, – e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: – Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!».
Un racconto in cui è difficile non immedesimarsi, la storia di una famiglia unica…come tante!
Se non l’avete ancora fatto, leggetelo!!!