Quel pianoforte era vecchio e scordato, mi sa che gli mancava pure qualche corda, ma era uno dei pochissimi esemplari…della città. Si trovava a Mogadiscio, in uno stanzino (tipo sacrestia) di una chiesa che oggi non esiste più. Tutti i giorni feriali andavo lì a studiare per un’oretta i miei pezzi (sempre gli stessi); Padre Giorgio apriva il portone verso le quattro del pomeriggio, e un giorno a settimana incontravo sul sagrato uno dei miei amici italiani, che era stato rimandato in latino.
Padre Giorgio mi chiese di far lezione di pianoforte a Suor Mary, la piccola e dolcissima suora indiana. Veramente ero anch’io una principiante, ma lei di più. Perciò la maestra ero io.
Suor Mary era davvero piccolina di statura, a tredici anni io ero già abbastanza altina e la superavo di un bel pezzo. Era anche magrissima.
La stanza era un po’ spoglia e poco illuminata. Si apriva non solo sulla navata della chiesa, ma anche sul cortile interno, vivo e assolato, dove si svolgevano numerose attività, c’era anche una filanda. La sedia che fungeva da sgabello era bassissima anche per me, ci mettevo sopra i miei spartiti e poi un grosso cuscino piegato in due: un vero numero di equilibrismo. Per Suor Mary la tastiera era davvero un po’ troppo in alto.
Le insegnavo quello che sapevo, perciò pochissimo. Cercavo di spiegarle qualcosa che nemmeno io avevo ancora ben capito, cioè che doveva tenere le spalle e le braccia morbide – certo in quella situazione era un po’difficile!
Ah già, Suor Mary parlava solo inglese (oltre al suo dialetto hindi e a un po’ di somalo), di cui non capivo una parola, perciò come potessimo comunicare non vi saprei dire. Mesi dopo, io e padre Giorgio ci siamo scritti una lettera, alla quale lei aggiunse alcune righe che mi commossero molto (mi sembravano davvero immeritate), in cui diceva che pregava per me.
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