Ultimo artista surrealista gallipolino
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Max Hamlet Sauvage
Hamlet è come un ragno che tesse tele preziose e geometrie di sogni; un gufo dalla coda di rondine che guarda le sue rovine; un felino in agguato nei cieli grigi del “Whaam” di Roy Lichtenstein, suo fratello maggiore di fumetti dissacratori.
Hamlet si guarda allo specchio e si ammira con la grazia rifratta di un bicchiere di cristallo e l’odore buono di un limone sbucciato; è un istrione scabroso che va a zonzo per il Corso di Gallipoli con un camioncino biancolatte pieno di cianfrusaglie, che gira da un ufficio all’altro del Comune con il cappio di una corda d’aria per impiccare il Sindaco e tutti gli Assessori.
Hamlet va in giro col suo Nulla e la sua Solitudine, deambulando da un bar all’altro come un cospiratore di pernod, gin tonic e “cafè “ francesi; sempre con quella sua maschera magnogreca da vecchio guerriero stanco, un Odisseo tramontante che torna a Itaca e non trova nessuna Penelope, ma solo Proci pieni di otri di vino e sesso. E tanti vetri infranti.
Hamlet deambula con quell’ingenuità di un pazzo o un bambino curioso e avido di tutto, della terra d’ombra e dell’aquilone, del teatrino e del concetto spaziale, dei buchi neri, dei tagli di Fontana e dei sacchi di Burri, e con il fascino della disperazione che gli si legge negli occhi allucinati e nel viso incorniciato da una barba bianca e tanti vuoti a perdere.
Hamlet va – con quella trascuratezza narcisistica e perfetta, portata con nonchalance, quella diversità del folle che lo distingue da tutti gli altri, – inseguendo lucciole, lanterne e desideri impossibili.
E’ un’ombra..
Inafferrabile.
Voyeristica
Vagamente sinistra.
Ha l’ ambigua pupilla mefistofelica e parole che sono colori violenti, frustate, o strisciate di serpi. Hamlet è un dinosauro, un rettile preistorico, un vecchio coccodrillo costretto a navigare in una pozzanghera; un cercatore di pietre filosofali che spietra dossi con le braccia ancora forti, il busto eretto da maniscalco messapico, gli occhi saraceni, le labbra carnose, i capelli ricci e bianchi, metallici, argentati, ancora lunghi e raccolti nella coda da cavallo come una Cindy Sherman dei ritratti storici.
Hamlet è un pittore, uno scultore, un artista vero, “un essere sul quale non bisogna troppo discutere perché perde la vita in onor nostro e per l’elevazione del nostro spirito”.
E’ pieno dei mattini e dei tramonti di Gallipoli: è pieno di quelle fiamme e di quelle trombe del Salento autunnale, si fa orchestra con i suoi cembali di marzo; sta di fronte a me con la sua ingenuità e il suo cinismo; la sua stella di ferro e rame e il cerchio sudamericano; i suoi momenti da “special one” e la nona ora, la nona porta, la sua timidezza estrema, e la freddezza, la
lucidità, la vanità infinita, e l’autoironia.
Hamlet è qui con la sua maschera di cera, anzi le sue maschere di gesso, creta e bronzo. Ci sconcerta, ci sbalestra, ci manda fuori dalla storia e dalla critica d’arte, ma il suo impatto sulle nostre esistenze provinciali, – volenti o nolenti, – è grande, è esplosivo e le sue opere ora bollono come in un crogiolo, senza fine.