Un giorno, nemmeno tanto tempo fa, ho avuto occasione di accompagnare una lezione di classico di un maestro del Kazakistan. Uno potrebbe credere che da quelle parti ci siano solo steppe sterminate e cosacchi a cavallo, invece ci sono anche ballerini di danza classica che studiano molto seriamente, secondo i canoni della scuola russa. Ebbene il kazako dal viso asiatico e spigoloso aveva una speciale caratteristica: parlava soltanto la lingua kazaka e, come molti suoi compaesani, anche il russo. Inglese, nulla: nemmeno one-two, neanche a dirsi go, figurarsi hello. Il fatto è che non ha voluto rischiare l’incomprensione esprimendosi in una di quelle sue due lingue: ha preferito il silenzio. Ritengo che un conteggio da uno a otto, pronunciato in russo o in kazako, lo avremmo probabilmente intuito, gli allievi ed io: ci eravamo riusciti persino con i cinesi… Ma niente da fare: la lezione si è svolta nel silenzio, interrotto solo dai miei interventi al pianoforte, e la comunicazione non ha potuto svolgersi che attraverso la gestualità. Il kazako mostrava i passi più o meno al tempo effettivo di esecuzione senza profferire verbo. E faceva le sue correzioni intervenendo sugli allievi direttamente e spesso riferendosi alla postura: quindi puntava le proprie mani sulle spalle e mostrava il torace disteso, en face o epaulement. Ogni tanto questo silenzio era esilarante. Persino a lui sfuggiva di tanto in tanto un sorrisino giocondesco, ineffabile, forse ironico forse imbarazzato forse beffardo. E io morivo dal ridere, ma guai a darlo a vedere. L’unica era affondare il viso tra le mani, tossire e tentare di occultarsi dietro al pianoforte.