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Sindacati a parte (è nelle cose) in molti si dicono contrari ai licenziamenti facili, che detta così sembra l’inferno per quanto naturalmente non possa ritenersi auspicabile l’abuso di questo eventuale istituto. Il punto è un altro, però. Le aziende in difficoltà potrebbero anche licenziare, a patto che i lavoratori siano tutelati tanto quanto. E qui torna alla mente la flexicurity – in questo caso più all’amatriciana che nordica –, già contenuta nell’agenda Giavazzi-Alesina. Per far sì che l’opportunità sia meno obbrobriosa di quello che appare è necessario innanzi tutto plasmare un modello diverso, che vada oltre la cassa integrazione e che punti piuttosto su ammortizzatori sociali degni di questo nome e sussidi di disoccupazione, favorendo inoltre una rapida reintroduzione nel mercato del lavoro. Il gioco si farebbe duro. Perché a causa dell’elevato debito pubblico di cui disponiamo è difficile pensare che la misura possa adottarsi in quattro e quattro otto (i soldi vanno recuperati da qualche parte, no?). Il problema vero, quindi, non è la rivoluzione liberale in sé – che anzi avrebbe fatto bene al nostro sgangherato Paese –, ma la tempistica (otto mesi) che il governo ha garantito all’Europa per varare i provvedimenti contenuti nella lettera. Tanto più che la maggioranza c’è, ma non si vede. Tanto più che il Pdl è lacerato (e continua ad esserlo) dall’interno. Tanto più che Berlusconi non farà mai un passo indietro.
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