Il libro si intitola “Roba da donne”, la curatrice Silvia Camilotti per le edizioni Compagnia delle lettere. Per la verità all’inizio mi ha attratto la copertina, la veste editoriale che, sebbene sia quella di un tascabile, lascia intendere anche dall’aspetto la preziosità dei contenuti. Poi sfogliando il libro mi sono resa conto dell’operazione inconsueta in cui mi fossi imbattuta. Sebbene il sottotitolo piuttosto generico reciti emancipazione e scrittura nei percorsi di autrici dal mondo ciò che salta all’occhio è il senso di un progetto volutamente lasciato alla spiccata originalità di ogni narrazione/saggio che la curatrice ha inteso includere correndo e sventando il rischio che ne venisse meno il senso di insieme. Senso che invece, al termine della lettura si staglia oltre le intenzioni del sottotitolo, in favore di una pluralità tutta femminile, incurante tanto della provenienza geografica delle voci quanto delle certificazioni accademiche e della collocazione storica dei ritratti femminili presentati. Ne risulta qualcosa che accosta di molto l’essenza di un femminile che qui sembra abbandonare il concetto statico di emancipazione cui siamo abituati. Tra tutti i saggi degno di particolare nota è uno scritto di raphael d’abdon, curatore e traduttore per lo stesso editore nel 2007 di I nostri semi. Peo tsa rona. Poeti sudafricani del post-apartheid, nonché blogger di Absoluteville. L’autore inizia fissando lo sguardo su un antagonismo politico che all’epoca della redazione dello scritto (1) si giocava in Sudafrica tra Thabo Mbeki e Jacob Zuma. All’alba del passaggio di potere che si profilava da Mbeki a Zuma, raphael d’abdon inquadra lo sviluppo al femminile della spoken word poetry sudafricana in un momento in cui le artiste di un paese del sud del mondo, quindi già propense a intendersi coscientemente la “spina dorsale della società” (2), affrontano il passaggio politico a una leadership come quella di Jacob Zuma, coinvolto in scandali di ogni sorta e “che predica la necessita di una rigenerazione morale del paese ma che poi, da poligamo conclamato, ha rapporti non protetti con una giovane amica di famiglia” (3) in un paese in cui l’AIDS è tra le prime cause di mortalità. Ma cos’è la spoken word poetry? Esistono esempi che possono fare intendere di che si tratta? “Figlia non solo dell’antica tradizione orale africana, ma anche della poesia dub giamaicana e afrobritannica (…) della spoken word e freestyle nordamericani (…), del rap, nonché di culture musicali come l’hip hop, il Rhythm&Blues, il jazz, il funk, l’afrobeat, la house e la kwaito” (4) è un fenomeno che nasce dalla tradizione della poesia orale di certi paesi ma che poi ha travalicato come nel caso del Sudafrica la sua genesi rurale per diventare un genere urbano, sociale, politico. Un fenomeno quindi che si è sviluppato naturalmente in paesi diversi nel momento in cui lo scarto tra vita rurale e vita sociale è risultato evidente a una comunità in cui è era ancora possibile un confronto immediato che si esprimesse artisticamente prima che politicamente. La spoken word poetry mantiene la sonorità intimista del racconto individuale pur facendosi parola immediata del sentire espresso nell’ambito di una comunità in ascolto. Viene da sé il gesto danzato di una pronuncia che segna il passaggio dal verbo al contatto con un’esperienza per lo più vera e necessaria. Le artiste sudafricane, sottolinea d’abdon, hanno accettato la responsabilità e propugnato il diritto che lo status femminile inteso pienamente impone e comporta a un’artista donna. Non hanno barattato la loro indipendenza con una certa forma di popolarità, preferendo l’integrità a un’estetica proposta da un’editoria che in Sudafrica è per lo più espressione del potere politico che non considera il femminile se non come strumento. Alcune artiste hanno quindi optato in favore di una libertà creativa che si basi essenzialmente sulla loro poesia, intesa soprattutto nella forma orale e con divulgazioni autoprodotte, facendo sì che essa divenisse, sopratutto nel metodo, un atto politico. Ciò, secondo raphael d’abdon, ha finito per fare intendere, meglio che proclamandola, l’origine del loro canto, che in passato e tuttora si propone di essere la forza che evoca l’energia necessaria alla comunità a destare la memoria perduta della propria indipendenza e l’ispirazione per rieditare artisticamente il racconto rinnovato che concerne le proprie origini. E indica inoltre come possibile una forma di lotta politica che si basi anche su una certa qualità del silenzio: scrive Motsei, del go hupa kotana che letteralmente significa “mettersi un bastoncino in bocca per evitare di parlare” (5). In un paese in cui l’azione esplicita della protesta ha una presa relativa, è sopratutto l’azione emotiva che provoca l’ascolto del canto femminile nonché la bellezza che queste poetesse sono in grado di evocare, a sgombrare il campo dall’idea di emancipazione standardizzata che spesso induce a crede l’inermità di alcuni aspetti del femminile, come un’ingiunzione alla prevaricazione piuttosto che latrice del germe vitale custodito nel silenzio di generazioni di donne presenti a loro stesse. Ma non solo, lo scritto di d’abdon, a mio avviso, apre anche la strada a una riflessione che concerne il gap che potrebbe sussistere tra emancipazione e consenso. Sia dal punto di vista prettamente femminile, per cui accade quasi di riflesso l’adesione a stereotipi anche trasgressivi, anche perbenisti, come ricerca esclusiva di un consenso nell’immaginario che si crede collettivo, sia dal punto di vista strettamente maschile, per cui il consenso fomenterebbe una potenziale visibilità, un individuo apparente che si crede molto più efficace di quello che risiede nelle individualità reali. Recuperare col canto, a volte non direttamente politico, tratti di non proprio scontata libertà interiore è l’esempio più eloquente che un gruppo di donne africane danno a chi in teoria è reduce da un percorso di emancipazione già compiuto. Ovvero fare poesia “praticando” scelte politicamente decisive, come nel saggio di d’abdon indica un’anziana alla nipote (6): dopo aver accuratamente scelto per cosa si voglia combattere bisognerà essere in grado di fare a meno di vincere tutte le battaglie, con ciò insegnando una libertà che va ben oltre quanto di essa si possa dire.
Parlo agli spiriti
Una poesia di Natalia Molebatsi, Writer & spoken word artist (7)
parlo a spiriti
vivi e vegeti
che parlano al silenzio
io parlo al clamore del silenzio
loro interrogano l’asprezza del silenzio
parlo agli spiriti
che parlano al ritmo
io ballo seguendo il ritmo
parlo a ombre danzanti
su muri
muri di luce
muri di dolore
muri di fede
muri di pioggia
che non arriva mai
parlo agli spiriti
che parlano a barricate
e check points
che inghiottiscono i nostri figli nel fiore della loro esistenza
e figlie che esplodono da episodi silenziosi
di fede
e dolore
e pioggia che non arriva mai
parlo a spiriti
che parlano al silenzio e
le ali della donna cariche di desiderio
volontà, disperazione e voglia di parlare
alla mente
con la mente
non con degrado
ma con l’unità
e l’intreccio delle dita delle nostre mani
e dei nostri piedi
parlano, con la tua visione,
che è nitida
parla agli spiriti
suoni tra le mura dei nostri pensieri
non solo attraverso il movimento delle labbra
ma l’evoluzione dell’anima
e crea la tua
sentiero da tracciare
parlo a spiriti
facendo risuonare
i colori di ogni ombra
che danza sulle mura dei miei pensieri
parlo a spiriti
che non svaniscono mai
(io) parlo agli spiriti
Note
1. l’indomani della chiusura della 52 conferenza dell’African National Congress, Polokwane, 16-20 dicembre 2007
2. Silvia Camilotti, Roba da donne, raphael d’abdon, Aspettando lo Zumani, Compagnia delle lettere, Roma, 2009
3.ibid.
4.ibid.
5.ibid.
6.ibid.
7. http://www.absolutepoetry.org/NATALIA-MOLEBATSI-parlo-a-ombre