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Quando Robert Capa morì aveva partecipato in prima linea a ben cinque guerre come fotografo e reporter. Una di troppo forse, visto che proprio in Indocina nel 1954 fu il primo corrispondente americano a perdere la vita. La madre rifiutò l’offerta del comando degli Stati Uniti d’America di seppellire l’amato figlio nel cimitero militare di Arlington, replicando che Robert era un uomo di pace, la sua macchina non era uno strumento da guerra. Indubbiamente, e questo è un punto magnificamente elaborato nel documentario Robert Capa: In Love and War, commissionato nel 2003 dalla PBS ad Anna Makepeace, perchè Capa aborriva qualsiasi forma di sofferenza e conflitto, tanto da arrivare a dire che “the war photographer’s most fervent wish is for unemployement”. Cionondimeno non è stata questa ricerca di situazioni aliene da guerre e conflitti a caratterizzare la breve ma intensa esistenza del fotografo ungherese, incisore di immagini di combattimenti, invasioni e bombardamenti. Egli era nella prima ondata dello sbarco americano in Normandia, unico fotografo presente.
Dalla guerra civile spagnola fino al termine della sua vita, Capa è stato in prima linea, impugnando non la pistola ma la macchina da presa. Se i suoi compagni guardando nel mirino cancellavano intere esistenze, Capa attraverso l’obiettivo cercava di donare immortalità ed eterna memoria al milite ignoto che aveva di fronte o al civile spaventato che chiedeva perdono al cielo, portando un po’ di luce nell’oscurità della guerra. Grazie al suo talento ha reso possibile una versione della storia scritta non più solo dai vincitori, ma anche dagli uomini semplici, dai soldati comuni e dai civili. Come il documentario mostra, esplorando sul grande schermo l’estremo patetismo delle sue fotografie, Capa vagabondò in ogni luogo, dall’Ungheria all’America, dalla Cina al Vietnam, dall’Europa al Nord Africa, prendendo parte a tutte le guerre cui avrebbe potuto, senza mai essere distolto da comode opportunità o facili sistemazioni. Come racconta Isabella Rossellini, perché avrebbe dovuto sposarsi con l’affascinante Ingrid Bergman - conosciuta sul set di Notorius, di cui era fotografo di scena-, quando un eventuale matrimonio, sia pure con una delle donne più talentuose della scena hollywoodiana, lo avrebbe distolto dalla vita vera? Anne Makepeace afferma che quando la American Masters le commissionò un documentario su Capa, le parve di primo acchito un’impresa impossile, perchè la vita del fotografo le pareva così incredibile, così leggendaria, da essere straniera alla grammatica filmica che aveva fino a quel momento utilizzato. Questo finchè non si trovò ad osservare le centinaia e migliaia di fotografie che Capa scattò a civili e bambini, piene di umanità e compassione. Come la regista è poi stata perfettamente in grado di mostrare, Robert Capa obbediva non a quel certo senso estetico che oggigiorno prostituisce la fotografia nella vana ricerca di un’astratta perfezione, ma manteneva fede a un autentico spirito giornalistico: egli letteralmente scriveva con la luce (dal greco fos-grafein) ciò che vedeva, organizzando l’immagine in inedite composizioni verticali. Lungi dall’essere un noioso documentario biografico, la Makepeace rende la pellicola ancora più interessante grazie alle testimonianze di chi conobbe davvero quel mascalzone dallo sguardo di velluto –come lo definisce Henri Cartier-Bresson -, intervistando Eva Bensyo, Cornell Capa, Marc Riboud, Elliot Erwin, e Steven Spielberg, che, per Salvate il soldato Ryan si rifece alle immagini dello sbarco a Ohama Beach scattate dal co-fondatore della Magnum. Robert Capa: In Love and War palesa l’importanza storica e culturale, oltre che fotografica ed estetica del giovane ungherese che, nato come Endre Erno Friedmann decise che sarebbe diventato Robert Capa, ovvero il fotografo insignito della nomina di migliore reporter di guerra al mondo dopo la guerra di Spagna. Se Capa affermava che “se le tue fotografie non sono abbastanza buone vuol dire che non sei andato abbastanza vicino” si può certo asserire che la Makepeace non si sia tirata indietro di fronte ad una così difficile sfida, come offrire un ritratto del più importante fotografo di guerra del ventesimo secolo. Erica Belluzzi
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