Se Le torri di mezzanotte comprende 335.000 parole, A Memory of Light ne comprende ben 360.000, il 20% in più rispetto a quel che avrebbe preferito la casa editrice anche se, trattandosi della fine della saga, suppongo che i lettori non si lamenteranno.
Non so quando l’opera sarà tradotta in italiano, ma immagino che si tratterà solo di attendere qualche mese. Ormai già dallo scorso febbraio con la pubblicazione di Le Torri di mezzanotte abbiamo raggiunto i lettori americani. Ormai manca poco prima che i venti di Tarmon gai’don, l’armageddon, soffino su una terra chiamata Randland. In un’epoca da gran tempo trascorsa, un’epoca ancora a venire, grandi eventi si prospettano e anche se non si tratterà dell’inizio sarà comunque un nuovo inizio.
Intanto io ripropongo la mia recensione delle Torri di mezzanotte.
Il Disegno si sta sfilacciando, lacerato dal tocco sempre più forte del Tenebroso. Tarmon gai’don è iniziato, e tutti i precedenti dissapori devono essere accantonati in vista di un confronto più grande.
L’invasione delle Marche di Confine inizia già nel prologo, e i punti di vista dedicati a Rodel Ituralde non fanno che confermare la gravità delle situazione. Non c’è più tempo per la diffidenza fra i vari gruppi di esseri umani, fra eserciti e troni rivali, eppure è proprio il tempo l’unico neo di questo romanzo.
Presagi di tempesta era terminato con un Rand al’Thor rigenerato. Passato attraverso il suo personale inferno, il Drago rinato era riuscito finalmente a trovare l’equilibrio, un equilibrio talmente grande che, ogni volta che appare, non possiamo che rimanere stupiti dalle dimensioni del cambiamento. Lo vediamo nel primo capitolo, quando ritroviamo uno dei personaggi minori di L’Occhio del Mondo in una scena che mischia insieme la disperazione più profonda e una rinata speranza. Lo vediamo nella Pietra di Tear, quando una verità a lungo nascosta viene finalmente svelata. Lo vediamo, infine, in una scena dalla potenza distruttiva enorme, breve assaggio di quel che deve accadere.
E proprio per questo, proprio per quei Trolloc che sembrano emergere dalla Macchia senza fine, ogni rallentamento sembra eccessivo. Rand è cambiato, e il Mondo ha bisogno di lui. Nonostante questo, però, ciascun personaggio continua a fare i suoi piani personali.
Egwene, Gawyn, Elayne, Mat e tutte le altre figure che compaiono anche solo per poche pagine portano avanti i loro progetti, come se fossero inconsapevoli di camminare sull’orlo del baratro. Non che il ritmo della storia sia cambiato, ognuno fa quel che gli sembra necessario o urgente, ma ormai il confronto decisivo preme e cose più banali come l’incomprensione fra i protagonisti o anche lo scontro con uno dei Reietti appaiono piccole in confronto a quanto sta avvenendo in altri luoghi.
Ancora peggio va con Perrin, lasciato indietro in un tempo ormai passato. Se Le torri di mezzanotte ci fa incontrare fin da subito un Rand appena sceso della montagna, il fabbro continua il suo viaggio in compagnia di Tam, anche se noi sappiamo che quest’ultimo si è già recato da tutt’altra parte. La sfasatura temporale si protrae per oltre metà romanzo, con un altro punto di vista che rimane invischiato in eventi che in teoria avrebbero dovuto essere già accaduti. Che sono già accaduti per tutti gli altri salvo forse Lan, che non si sa bene come collocare fra il tempo di Perrin e quello di Rand.
Brandon Sanderson ha ammesso che una delle maggiori abilità di Robert Jordan era legata alla sua capacità di districarsi in una linea temporale estremamente complessa, e anche se non sapremo mai cosa avrebbe fatto lo scrittore scomparso rimane il fastidio per una soluzione che non convince del tutto. Come perplessità ce ne sono in una scena comunque riuscita, quella della prova che deve stabilire un’Ammessa vada elevata ad Aes Sedai.
Noi avevamo già visto l’uso di quel Particolare ter’angreal in Nuova primavera, e Jordan aveva dichiarato che non ci sarebbero state altre scene di questo tipo. Ha cambiato idea lui, o si tratta di un’aggiunta di Sanderson? Dettagli, dubbi che non possono trovare risposta, ma che sono comunque marginali in un romanzo molto solido nel quale tutti i fili si stanno pian piano riallacciando fra loro.
Ci sono molte riunificazioni in queste pagine, e molte vicende che erano state lasciate in sospeso trovano la loro soluzione. Non tutte però, e non sempre il cammino scelto dai vari personaggi è tale da consentire sonni tranquilli. Mentre il progetto ancora nebuloso di Rand, per quanto rischioso, sembra andare nella direzione giusta, il breve incontro con Suffa non può che seminare nuovi dubbi. La Ruota del Tempo gira, e spesso torniamo in luoghi e situazioni già visti, ma basta una minima variazione perché, quando la trama si riallaccia a fili già tessuti, intessa un nuovo disegno e cambi, forse per sempre, quello che credevamo di conoscere. Così se L’ascesa dell’Ombra ci aveva mostrato, con un vertiginoso viaggio nel passato, cos’era accaduto perché la realtà diventasse quella che è, qui un nuovo viaggio mostra come, anche dalle migliori intenzioni, possa nascere una catastrofe.
Tremila anni prima Lews Therin Telamon ha sigillato il Tenebroso nel Foro, e ha dato il via alla Frattura del Mondo, perché a volte anche le più grandi vittorie si pagano a caro prezzo. Ora è tempo di chiudere il circolo, sperando che i fili che non si sono ancora riallacciati agli altri non disfino l’intero Disegno. Non per nulla una profezia del ciclo Karaethon posta all’inizio de La Grande caccia ci ricorda che il Drago rinato accecherà e brucerà coloro che vivranno nel suo stesso tempo, ma che si confronterà con l’Ombra nell’Ultima Battaglia e attraverso il suo sangue donerà la luce.
Tutto è pronto, in attesa di A Memory of Light. Restano gli ultimi discorsi, e poi parleranno le armi, come profetizzato tanti anni fa da un famoso scrittore: “Lasciate scorrere le lacrime, o popoli del mondo. Piangete per la vostra salvezza.”