La prima cosa che ti colpisce di Roberta Mandoliti, in arte Edice, è la sua poetica determinazione. Il suo essere, allo stesso tempo, un folletto pieno di idee, suggestive e decisamente originali, e una moderna Alice intenta a raccontare il suo personalissimo viaggio (d’artista) in un Paese delle meraviglie.
Un Paese dove le proporzioni contano fino a un certo punto, i libri si trasformano in gocce di profumo da indossare (con buona pace di Marilyn e del suo Chanel n. 5), e gli scarti artistici diventano mattoni da calpestare, magari con grazia.
Roberta ama la definizione di “anti-artista” per sé. Credo dipenda dal suo guardare e raccontare la realtà con occhi insoliti, come solo gli artisti sanno fare, e per la naturale tendenza a un pensiero tridimensionale. Volete saperne di più?
Roberta, cosa intendi quando dici: “Io penso in 3D”?
L’idea in sé non ha forma, è pura astrazione, ma quando io comincio ad averne una in testa, la vedo già assumere forma e colori. Nel mio caso astrazione e forma coincidono, ecco perché parlo di pensiero in 3D. C’è chi riesce a vedere col solo pensiero, e chi ha invece bisogno di vedere con gli occhi ciò che la mente pensa.
Quando hai iniziato a disegnare?
Da bambina avevo sempre tra le mani matite e colori ed ero sicura che da grande avrei fatto l’artista. Ricordo ancora i dubbi e la preoccupazione di mio padre a riguardo…
E invece, dopo il liceo artistico a Cosenza, arrivi all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro: come è stato l’impatto?
Straniante. Io adoravo Michelangelo, Leonardo, Caravaggio, e all’improvviso mi ritrovavo a sentir parlare di arte concettuale e astrazione. Pensavo che non avrei mai potuto fare niente di diverso dal figurativismo, e invece…
E invece sono arrivate le “Anamorfosi”, ci vuoi raccontare la loro storia?
Le Anamorfosi sono il risultato di una distorsione prospettica. Quelle che ho realizzato io sono sculture sproporzionate che, se osservate da un certo punto di vista, perdono l’aspetto distorto, ma basta girarci attorno per capire che quelle sproporzioni sono reali e non illusorie.
La mia prima Anamorfosi, per esempio, è una donna con grandi mani e una testa molto piccola: a dire il vero della testa c’è solo il mento.
Cosa ti ha spinto a questa scelta artistica?
Queste sculture sono state il mio primo tentativo di rottura col passato, per una decostruzione della forma e una sperimentazione nuova dello spazio. Nelle Anamorfosi, infatti, è l’opera che disegna lo spazio e non il contrario.
In architettura, un esempio del genere lo troviamo a Roma, in Palazzo Spada, dove Bernini ha realizzato un colonnato che a prima vista sembra seguire le regole della prospettiva euclidea, mentre in realtà, servendosi di un punto di fuga centrale, Bernini realizza colonne dalle dimensioni sempre più piccole, e lo stesso fa con il pavimento.
Dopo le “Anamorfosi” sono arrivate le “Essenze culturali”, altro progetto molto originale, come è nata l’idea?
Era l’estate del 2010, e riflettevo su come fare a trasmettere l’essenza dei libri stampati a una generazione che potrebbe non avere più la possibilità di leggerne uno. Oggi viviamo il passaggio dalla linearità alla frammentarietà del digitale, e la memoria del libro è un tema delicato.
Gli ebook ti fanno paura?
No! L’ebook è uno strumento che facilita la lettura, è un supporto eccezionale, ma come cancellare la memoria del libro stampato? Così ho messo a punto una ‘ricetta’ che ha per ingredienti gli elementi essenziali del libro: carta, inchiostro, colla, fili; li macero tutti in alcol e poi li distillo, riproducendo la tipica fragranza cartacea.
Un procedimento che mi permette di conservare la memoria del libro. Ho anche studiato un packaging ad hoc: ogni boccetta di vetro che contiene l’essenza è a sua volta racchiusa in una scatola che riproduce forme, colori, e dimensioni in scala del libro distillato.
Prendere in mano un’essenza culturale volevo fosse come aprire il libro stesso e non uno qualsiasi.
Esattamente come nasce un’essenza culturale?
Scelgo il libro, lo strappo in piccoli pezzetti, lascio che maceri per qualche tempo in alcool, e poi distillo il macerato ottenuto in un alambicco.
Un alambicco? Come ti è venuto in mente?
All’alambicco sono arrivata per stadi, all’inizio non sapevo neanche bene cosa fosse. L’idea era ottenere il profumo della carta e così, come un piccolo chimico, ho iniziato a sperimentare con pentole e pentolini, fino a quando facendo delle ricerche in rete, sono arrivata all’alambicco.
Per ottenere l’acqua distillata che mi serviva ho seguito le nozioni base illustrate nei libri d’erboristeria. Oggi utilizzo un distillatore in vetro e con questo creo le essenze a base alcolica, ma senza ricorrere a nessuna fragranza di sintesi o coloranti aggiunti. Solo libro!
Qualcuno ha messo in dubbio il tuo procedimento?
In tanti pensano che io aggiunga oli essenziali nelle mie essenze, ma non è così! Io volevo che chiunque spruzzasse sulla sua pelle l’essenza culturale Divina Commedia, per esempio, ‘indossasse’ il libro scritto da Dante. È una metafora! Un dono per le nuove e future generazioni di lettori, ma anche per quanti oggi amano i libri stampati.
Ricordi il primo libro distillato?
“Finzioni” di Borges, dopo tante, tantissime prove con la carta dei giornali!
E poi?
Poi è stato un costante perfezionare il prodotto, realizzare il brevetto d’invenzione, per poi arrivare al contatto con le librerie. Ho iniziato con la libreria Fahrenheit 451 di Roma – e non poteva essere altrimenti! – poi la libreria Didò di Pesaro e l’Isola del Tesoro di Catanzaro.
L’obiettivo è propormi ad alcuni editori, ma in questo momento sono impegnata su più progetti contemporaneamente. Il lavoro dell’artista oggi è complicato, abbiamo a che fare con un vero e proprio sistema.
In che senso?
L’arte non vive della sua essenza, ma del suo extra: di contesti, di critici, di galleristi e mercanti. L’arte è mercato! Ciononostante lavoro e resisto al sistema perché di base mi resisto! Come diceva Pessoa “Ci sono veleni necessari”.
Su quale nuovo progetto stai lavorando ora?
“Qui si raccoglie arte. Art collection”
Sembra uno slogan pubblicitario
In un certo senso lo è. Ho pensato che se l’arte oggi nasce dallo scarto, e quindi è scarto essa stessa, perché non riciclarla? I bidoni dell’immondizia raccolgono e narrano storie di vita quotidiana, perché non fare altrettanto con la storia dell’arte? Così ho creato dei bidoni e dei sacchi per la raccolta di opere d’arte.
E gli artisti come hanno reagito?
Personalmente, credo che l’artista che utilizza materiali come la plastica o la carta, non si ponga il problema della durata della materia, ma dell’idea. Solo le idee non sono soggette ad alterazioni e rimangono estranee al consumismo. In fondo, come osservava Munari, ci sono opere d’arte destinate a durare centinaia di anni come materia, mentre il loro contenuto si dissolve in pochi secondi.
Inoltre, è sempre più comune tra gli artisti contemporanei la pratica di prelevare oggetti di vita quotidiana, anche dalla spazzatura, per trasformarli, o trasfigurarli in opere d’arte. Un’idea che ho approfondito leggendo Il cacciatore di immagini di Charles Simich, dedicato all’arte di Joseph Cornell.
Ci spieghi in dettaglio il progetto?
Ho realizzato dei sacchi in carta e in tela da appendere a parete e su di essi ho inserito delle immagini e le indicazioni su cosa poter raccogliere o non raccogliere.
Li ho distribuiti tra musicisti, scrittori, fotografi ecc., e li ho invitai a riempire il proprio sacco con le opere che intendono buttare via, sia che si tratti di pezzi unici o seriali.
La fase successiva è quella di (ri)valorizzare, riciclare, e quindi trasfigurare, tutto quello che è stato gettato per farne una vera e propria collezione.
Cosa ti affascina dell’idea del collezionare?
Pessoa diceva che “possedere è perdere, sentire senza possedere è conservare, poiché significa estrarre da una cosa la sua essenza.” E collezionisti in questo senso sono Joseph Cornell, Robert Rauschenberg, Bruno Munari, solo per citarne alcuni.
Artisti che (ri)pensano gli oggetti in quanto altro da sé. Inoltre, nell’idea della collezione, c’è insito il concetto di montaggio: e non esiste collezione senza montaggio. C’è una frase di Didi- Huberman che lo descrive molto bene, posso leggertela?
Certo!
“Il montaggio è un work in progress, dove si tengono insieme, fosse anche contraddicendosi, tutte le dimensioni del pensiero. Un lavoro permanente della riflessione e dell’immaginazione, della ricerca e del ritrovamento. È straniante, il montaggio mostra smontando; è uno shock delle eterogeneità”.
Sui sacchi ci sono delle immagini: cosa rappresentano?
La scelta delle immagini non è casuale. Per esempio, nel sacco dove affianco la ruota di bicicletta di Duchamp a Munari che suona uno strumento immaginario e al libro forato di Agnetti, l’idea è di creare una narrazione. La ruota della bicicletta, ingigantita, diventa una ruota panoramica, uno sfondo poetico per Munari che suona uno spartito impossibile (il libro forato), per uno strumento altrettanto impossibile.
Nel sacco con la “Gioconda” di Leonardo, “Fontana” di Duchamp e la banana disegnata da Warhol per il disco dei Velvet Underground, l’immagine finale è provocatoria ed erotica. Una Monnalisa che col suo emblematico sorriso accarezza l’orinatoio su cui si affaccia il disegno di Warhol (la banana).
Alla fine della raccolta cosa realizzerai?
Mattoni! Assemblerò le opere d’arte raccolte, strato su strato, fino a creare dei parallelepipedi alti qualche centimetro e creerò una superficie calpestabile. Oggi la tridimensionalità degli oggetti è fagocitata dalla bidimensionalità, dall’immagine di superficie appunto, ecco perché anche nel mio caso le opere d’arte saranno ridotte a un’immagine bidimensionale.
E poi amo camminare scalza, e sentire con i piedi le sconnessioni delle superfici, le sue depressioni, la voluttà di quel silenzio. Mi è capitato di camminare scalza in chiese antiche, su mosaici o pietre. Credo che ‘sentire’ con i piedi sia una prima forma di conoscenza che coincide con la percezione del tempo e la sua storia. In fondo non conosciamo il mondo che ci circonda solo con la vista, ma anche attraverso il contatto, gli odori, i suoni.
Vuoi parlarci anche di “Metronomo”?Da un po’ di tempo in metropolitana fotografo le persone che m’incuriosiscono. Mi capita di immedesimarmi in loro, nei loro pensieri. Poi a casa lavoro le foto e creo una stilizzazione di quei volti, a cui attribuisco un nome fittizio (Alcide Spada, Paul Breton, Vera Sortilegge…). A questo punto trasformo l’immagine stilizzata in linee di contorno e creo dei timbri di carbonio che uso per firmare i miei lavori. Sono eteronimi, o metronomi appunto!
Avere 30 anni ed essere un’artista oggi in Italia: come ci si sente?
Per natura, inquieta. Mai realizzata. Un apolide. Ora come ora, vivo in Italia ma, non è la città che trasforma l’uomo in artista. Tuttavia non riuscirei a concepire un’altra vita.
Da cosa trai ispirazione per i tuoi progetti artistici?
La mia ispirazione nasce da quello che mi circonda, da quello che leggo. Confesso che negli ultimi anni mi sono cimentata anche nella scrittura, per lo più racconti metaforici, e mi piace. A differenza di quanto realizzo da artista, quando scrivo non ho un’idea precisa, è come se prendesse forma da sé.
Se dovessi definire la tua arte, quale immagine useresti?
Di me ho un’immagine liquida, perciò anche il mio lavoro deve esserlo. Strappo libri per ottenerne il distillato, colleziono scarti d’artista per poi farne mattoni compressi da calpestare…
Distruggo? Semplicemente resisto al desiderio di farlo! Dopotutto non c’è istruzione senza distruzione!
Che sia il suggerimento giusto per far partire la #buonascuola? Grazie Roberta!