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Roberto Benatti, "Vomeri d'ombra"

Creato il 24 novembre 2014 da Signoradeifiltriblog @signoradeifiltr
Roberto Benatti,

Vomeri d’ombra

Roberto Benatti

Il vomere è la lama triangolare dell’aratro che rovescia la zolla dopo averla tagliata. Un arnese, quindi, che fa uno scavo sulla terra tracciando linee su un pezzo di mondo come lo fa un cesello su un pezzo di legno. Spesso queste linee sono parallele, e pettinano la terra seguendo l’ordine razionale voluto dall’agricoltore. L’aratro è trainato da trattori o da animali, e il vomere, la parte più bassa, quella che è in profondo contatto con la terra, fa il lavoro più ombroso dell’aratura, perché è dentro, e cerca di uscire, ma non può uscire se non porta con sé zolle marroni, preparando la terra alla semina.

Se non fosse per il vomere, la semina sarebbe disordinata, non seguirebbe la logica ferrea del trattore. E allora, questo strumento triangolare, responsabile dello scavo, è anche responsabile della qualità del nuovo raccolto.

Così è il pensiero, e tutto quello che lo trasforma in espressione, nel caso specifico la poesia. Infatti, se tentassimo di definire la poesia, diremmo che è uno scavo interiore, un processo creativo attraverso il quale si cerca ciò che è dentro togliendo ciò che è in superficie, che di solito ci impedisce di vedere quella verità che non sappiamo in che altro modo esprimere.

Quindi il vomere ha molte similitudini con la poesia, e non solo dal punto di vista del poeta, anche dal punto di vista del fruitore.

Il vomere fa uno scavo lungo, non profondo, faticoso e tenace. Ed è sotto la superficie della terra che arriva, nell’ombra.

La poesia è assimilabile a un vomere, e per scavare nell’ombra occorre che sia fatta d’ombra, e immaginate quanto possa essere profondo lo scavo se viene fatto dall’ombra.

Ma veniamo al libro di Benatti. Le poesie sono prevalentemente lunghe, alcune suddivisibili in capitoli, usano un linguaggio accessibile, senza ricerca sperimentale né sonorità contorte.

Sono poesie che si leggono in sordina, quasi tacendo, ma si leggono diverse volte prima di lasciare un segno, perché scavano lentamente e con dolcezza, non sono una trivella che cerca pozzi di petrolio, sono un aratro che scava solchi, non aggrediscono la terra, né il lettore.

Leggendo, mi è sembrato di trovarmi davanti ad una mostra di fotografie in bianco e nero, di quelle fotografie che ti fanno contemplare, di quelle che non esprimono la violenza del colore, ma la violenza di uno sguardo. Ho visto migliaia di sfumature, non colori piatti, e il soggetto fotografato prescinde dallo sfondo, risalta nella sua crudele nudità.

Per questo la lettura non deve essere drammatica, ma va vista come una constatazione, vediamo:

Senza questo buio spesso

La miseria non chiuderebbe

Le ganasce alla sua morsa,

Né la speranza

Allenterebbe la sua presa

Senza uno spiraglio di luce.

Sono i versi di apertura della prima poesia, che dà il titolo al volume, e già questi versi sono una poesia a sé stante.

Queste poesie non sono un racconto di vita o una confessione delle proprie angosce. Partendo da lontano, il buio spesso, la miseria, le ganasce… il poeta presenta qualcosa di molto intimo. Bene fa a non parlare di sé, perché infatti nella poesia è il lettore che deve trovare una parte di sé, mai lo farà se il poeta gli impone la sua storia.

E tu hai perso tutto per me

Mentre io ti ho rimborsato

Con dolore nel dolore.

Questi tre versi chiudono la prima parte della poesia, e vediamo che qui si legge qualcosa che riguarda il poeta, ma non è così. Se prendessimo questi versi da soli non avrebbero forza, leggendoli a seguito dei primi sei, invece, la preparazione del fruitore permette di vivere quei versi come qualcosa di suo.

Ma vediamo un altro esempio di poesia:

Consapevole immensità

Che riaffiori da ogni paradiso,

squarcia la mia pelle di pioppo

e divora le mie foglie

ignorando il veleno della mia rabbia,

la cecità larvale

d’ogni mia seduzione

Ho incastonato

Le tue pietre preziose

Nell’anello della mia presunzione

Le tue gemme, lo so,

non si graffiano,

non sono chincaglieria

che si pesta fino a farne farina

stringimi al petto, allora,

come una rosa abbraccia le spine

e il velluto dei suoi petali.

Dammi lo strazio di resistere

Alle attraenze della memoria,

ai sensi affilati da superbi ritratti,

Fanne scia di cometa che non passerà più.

Scia di cometa, pag. 80.

Bene, il poeta non racconta, evoca. Nella poesia non si parla dei propri problemi, delle proprie preoccupazioni, perché la poesia è scavo interiore, è ricerca del giusto dove il giusto non si trova, è riscatto del bello dove il bello non si vede, è esplosione di significati senza significare nulla.

Questa poesia fortemente evocativa dice tra le righe molto di più che nelle righe. Non sta a me raccontarne i significati nascosti, ogni lettore troverà i propri, anche a questo serve la metafora.

Resterà solo una luce tremula

Oltre il velo che separa

La danza aerea dei segni

Nell’equilibrio delle porte aperte.

Un binomio di candele accese

Contro sfondi senz’atmosfera.

Una fiamma viva

Che brucia senza fumo

E illumina la nudità della mente.

Quindi un susseguirsi d’immagini: luce tremola, velo che separa, danza dei segni, porte aperte, candele accese… ogni immagine una sensazione privata e profonda che non si può raccontare se non con quelle immagini, opportunamente inserite nel contesto, introdotte da resterà, oltre, aerea, equilibrio… quindi una guida, istruzioni per l’uso, quasi a dire cosa fare o cosa accade a quelle sensazioni che costituiscono il patrimonio dell’io e del sé.

Sono poesie asciutte, prive di narcisismo, non portano al lettore la felicità o l’infelicità del poeta, come non porgono al lettore la banalità del proprio vissuto, semmai permettono di inserire un vomere nell’ombra del silenzio e di rivoltare le zolle della vita per prepararsi alla semina, e quindi a un nuovo raccolto.

Claudio Fiorentini

7 novembre 2014


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