A volte non è cosa buona e giusta appendere il proprio ragionamento al titolo di un libro, usarlo come gruccia. Ma proviamo a vedere. La direzione delle cose, in questo libro di Cescon, sembra intanto suggerire una rappresentazione vettoriale della vita e del tempo, attraverso le cose che li popolano. Niente di più occidentale di questo, un autentico canone determinista e positivista - finché è durata. Niente di più esposto alla crisi. Ma la direzione delle cose può anche semplicemente essere, come dice l'autore nel secondo testo della raccolta, quella della loro disposizione nello spazio, quella che ti indica "come arrivare alla porta". Cose-pollicino, quelle che danno una precaria e illusoria sensazione di stabilità, di aggancio alla realtà. Di trovare la strada. Ma le cose, si sa, non vanno da nessuna parte. Le cose, in questo libro di Cescon. stanno fermissime, hanno una inquietante immobilità. Questo, secondo me, ci porta subito ad una prima considerazione, alla scoperta immediata dell'arcano: se le cose stanno ferme sono perfettamente in sintonia con l'hic et nunc, con il presente congelato nel rispecchiamento uomo/cose che è uno dei tratti ricorrenti di una buona fetta della poesia odierna. L'apparente contraddizione tra questa "direzione" e la bidimensionale stesura morandiana degli oggetti (come in Morandi qui le cose fanno poca "ombra") va accantonata. Ma, però, quali cose? In un suo recente saggio (v. QUI) Davide Castiglione cerca ambiziosamente di affrontare le "cose" (come voce lessicale) in qualità di topos ricorrente nella recente poesia italiana, utilizzandolo quale indizio di una certa estenuazione della scrittura. Vocabolo che passa nel tempo da una funzionalità nel testo, come referente di realtà, come rimando a una concretezza che esso sintetizza e insieme connota, ad una funzione epifanica o filosofica in cui "cose" è riflesso speculativo, fino a un generico, "facile" e generalizzante utilizzo del termine "cose", una scorciatoia per il vuoto (tipo, cita Castiglione, il "faccio cose vedo gente" di Moretti). Una questione non peregrina, se la si vuole assumere come sintomo di impoverimento delle idee. Ma qui, in questo libro, le "cose" hanno un nome, sono concrete, si ipostatizzano in un limone, una damigiana, una pila di piatti, un cappotto, un paio di scarpe, un passeggino, un bicchiere di amaro. E se non sono oggetti sono fatti semplici, altrettanto concreti, come "la mano di Anna la sera sul divano" o una riunione di condominio. Direi che Cescon non fa poetica dell'oggetto. Pur con molti slanci lirici, siamo lontani da Montale, direi per fortuna. Gli oggetti (intesi anche in senso generale di obiectum) non sono rivelazioni di "altro", rivelano semmai sé stessi o chi li osserva ("E' nelle cose la poesia / quando si spaccano / o si fanno vedere"). Rivelano che qualcosa "esiste prima" (v. sotto). Non c'è correlativo oggettivo, secondo la definione che ne dette Eliot, cioè la catena che conduce all'emozione. Meglio, non c'è bisogno che ci sia. Giacchè, io credo, Cescon ha una necessità - ed è il suo dato più interessante -: respingere l'anonimato delle cose è un tentativo di limitarne l'anomia, il disordine. Limitarne, in altre parole, l'entropia, le variabili aleatorie, e con esse l'entropia della vita. Infatti quale correlazione oggettiva c'è ad esempio in questo testo, a suo modo esemplare?:
La direzione delle cose
La mano sulla sveglia ferma la notte
nel tempo che ancora ci prendiamo.
La tapparella taglia i contorni.
L'acqua nel termosifone è l’inizio
del giorno, le cose da fare.
Se dico ciabatte, arrnadio, servomuto,
so come arrivare alla porta.
La dlrezione delle cose é nelle parole
che dico, ma esiste prima.
Quando mi colpisce, cerco parole
per dirla, ma spesso non bastano.
Forse nel buio le cose
hanno una loro intelligenza
perché sono più di quello che siamo.
Direi nessuna, l'enumerazione delle cose concrete è come una maniglia a cui il poeta si afferra per guardare fuori dal finestrino. La presenza delle cose è costitutiva della vita, la marca distintamente, anche come misurazione del tempo. La vita sfreccia fuori da questo finestrino, senza epifanie. Essere e cose, direbbe Heidegger. Va da sè, come nota Gian Mario Villalta, che in queste condizioni si sia "esposti", deprivati di quella "opacità del sé", da quel "segreto" che gli oggetti non hanno. Diventiamo trasparenti, cose tra cose, anzi le cose "sono più di quello che siamo" E forse - ma Cescon non lo dice - ci posseggono. E va da sé, come ancora annota Villalta, che "la stessa lingua diventa ferocemente chiara, ridotta alla forma più denotativa". Tutto torna, in un certo senso. Ma dissento dal prefatore quando afferma che "si tratta di una rinuncia/impossibilità di inscenare la lingua come luogo privilegiato dell'atto poetico". Direi che non ci fosse altra scelta, in termini di forma, di selezione di un registro "basso", colloquiale, dicibile, che certo avrà illustri fratelli maggiori ma è quello giusto. La lingua è quella, l'atto poetico si instaura anche malgrado essa, se necessario. L'effetto è chiaroscurato, contrastato come una foto di cronaca, e con una interessante piattezza che rende bene disillusione, fatalità del quotidiano, sdipanarsi dei giorni. Rimane inespressa nel libro, ma sempre presente al lettore, la domanda di dove (ci) porti davvero la direzione delle cose. Non infinita, poichè - ci avvisa Cescon - "vivera era una retta, ora un segmento". (g.c.)
da La direzione delle cose
La grappa
Morto suo padre c'era tutta la casa
da mandare avanti con uno stipendio
e il prato fino al fosso di acacie.
C'erano i vestiti, le scarpe, l'odore
che resta. Per mesi i rumori
erano un alito dentro le cose.
Con la bella stagione ha sistemato
sacchi, tegole, scatole nella legnaia,
perché tenere le cose?
Sotto un asse ammuffito e una nuvola
di polvere ha trovato una damigiana:
è l'ultima grappa fatta dal padre
che credeva finita da anni.
L'aveva nascosta prima del male.
Come esistono le cose
se ci sono solo quando noi le troviamo?
L'ha travasata in cantina. Se la offre
agli amici deve raccontare la storia.
Ne beve poca ogni tanto
per non finirla troppo presto.
La pianta di limoni
Era un rito in primavera portarla
con mio padre fuori dal garage,
caricarla sul carrello truciolato
per un pezzo dì cortile
fino al gabbiotto delle galline.
Dietro il filo di fumo lui guardava
le mie braccia ogni anno un po' più forti.
Gli anni buoni faceva anche due tre
limoni, molto ma molto più buoni
di quelli del supermercato.
In autunno la pianta tornava in garage,
un sentiero a ritroso che chiudeva
l'anello delle stagioni.
Ma tra le primavere era tutto
fermo, uguale, come
le cornici sul centrino in salotto,
a parte la mia barba un po' più dura,
i suoi capelli un po' più bianchi,
in capannone fino a cena
e comprare il giornale la domenica,
indossando i vestiti che scartavo.
da La poltrona Poang
La pila di piatti
È un batuffolo rosa sulla linea del braccio
che chiude i pugnetti sotto il visino.
La madre ride piena di grazia,
mentre ricorda sembra impossibile
che eravamo al liceo, cosa siamo state
prima che il tempo cambiasse.
Dico sono contenta
per te più convinta che posso,
ma vorrei dirle non sono contenta,
tu non lo volevi, io da sempre,
ma è più di un anno ormai
e ogni mese ricominciare per niente.
La mia pancia è un vaso senz'acqua.
Resto in piedi con le parole
trasparente, fuori posto,
quando è costretta a dirmi quanto pesa,
quanto è lungo, che assomiglia al papà,
anche se frena la gioia che ha.
Un'altissima pila di piatti
schiantarli uno a uno per terra,
questo vorrei, oppure con un coltello
squartare un lombo su un tavolaccio
finché il sudore si mischia col sangue.
da La telecamera negli spogliatoi
Dal videocitofono un volto, forse
da qualche parte già visto, mi dice
scusi, sto cercando Nome Cognome,
lo descrive alto, moro, due bambine,
abita qui. Lo conosce?
No, mi dispiace davvero.
Dopo due passi scompare
dal video, ma restano domande
terribili: io come abito qui?
Sono centimetri di cemento
quelli che ci separano,
oppure distanze siderali?
Magari questo Nome è il cappotto
di ieri, ma l'ascensore è troppo veloce
per presentarsi, magari è l'Audi
parcheggiata vicino alla mia,
da quando la Fiesta non c'è più.
Al mattino la linea per uscire
sono chiavi, scale, la porta
tagliafuoco e la barra del cancello.
Chi mi incrocia non saluta,
eppure sentiamo i rumori
dal piano di sopra, siamo vicini
trasparenti, in testa la risacca
delle cose da fare.
Viviamo dentro moduli quasi contenti
quando piove il fine settimana
per riposarci sul divano tra i canali
e non vedere almeno un giorno
la scritta sul muro sotto casa
lavori per comprare la macchina
per andare al lavoro.
Libero
Cos'è girare la chiave e chiudere,
la casa è tua, ogni mese quasi
metà stipendio. Hai comprato il latte
al distributore, attorno c'erano luci
di altri appartamenti.
Il frigo è una steppa di confezioni,
restano sempre lì, anche a dimenticarsi
i giorni che scadono.
Dal frigo si sente qualcosa
oltre il bianco dei muri.
Qualche volta negli occhi vedi
la pelle di lei, cosa è stata su di te.
Lo schermo piatto sugli scatoloni
chiusi dei libri è provvisorio
come la lampada che spegne
la sera nell'angolo. Ora sei libero
ti pare di fare quello che vuoi.
Amaro con ghiaccio
A Piero
Vorrei invecchiare con questa tavolata
sabato in pizzeria, perché
siamo come sulla stessa autostrada,
ci fermiamo in autogrill diversi,
prendiamo le stesse cose, a volte no.
Non mi occorrono altre persone,
perché conoscersi è annusarsi
per non graffiarsi subito.
Parliamo di calcio, colleghi,
dove mangiare la prossima volta,
la politica se siamo d'accordo.
Certi discorsi ormai si ripetono
perché guardiamo gli stessi tg.
Ricordiamo gli anni dalle merendine
o dai cartoni, a volte esageriamo.
Ognuno tiene le altre cose per sé.
Siamo diventati i mocassini
e il bagagliaio capiente
per il passeggino della Stokke.
Qualcuno vuol fare l'orto,
però non le vacanze in agenzia.
Nessuno dice mai cosa sta leggendo.
Nessuno dice cos'è fare l'orto
da quando tuo padre non fa più l'orto.
Nelle loro vite c'è la direzione della mia.
L'amaro col ghiaccio è per allungare
il tempo, abituarsi alla nostalgia.
Poi tutti salgono sull'auto che hanno.
Verso casa i commenti concludono
che in fondo noi siamo meglio degli altri
Ti guardo e qualcosa resta oscuro
sotto il bene e nelle cose che facciamo
(un figlio, la spesa senza lista,
guardare le vetrine sperando
di sciogliere l'angoscia) perché
quante parole ci attraversano
come lastre di ghiaccio
tra la cucina e il salotto,
ma, spente le luci, torniamo
isole, nutrendo le schegge,
cosa rimane di noi
dopo il giorno, gli altri, tu.
da Da quando l'orizzonte è qui
Scena del crimine
La città è un vicolo oscuro, labirinto
di nevrosi. La famiglia sulla moquette
è all'esame della scientifica.
Per quanto terribile però
il colpevole si troverà
prima dei titoli.
Da tempo sogno una luce che si accende
nel disimpegno, io mi sveglio, i ladri
ammazzano me e Anna sul letto.
A volte non vedo nulla, a volte tutto, tardi.
Il nastro giallo chiude il male
nello schermo là fuori,
ci convince che siamo normali,
anche se infetta la pelle blindata
del divano, perché può sempre accadere
qualcosa, la voglia di partire
al rosso del semaforo. Poi sentire
i nostri vicini che friggono aglio,
l'ultimo processo che riempie
il telegiornale e dire buono il branzino
schiacciarlo contro il palato.
Ma è da cercare nelle parole
che restano il detonatore che cova,
perché facciamo cose imperdonabili
per andare avanti, o le sopportiamo.
da Il poeta è un sarto
Ho imparato a svestire le parole
per toccare il loro corpo.
Quando soffia lo scirocco
dai rami cadono le noci,
si raccolgono nei secchi
con pazienza in fondo al campo.
Basta avere forza di spaccarle
per mangiare dei gherigli senza fine.
È nelle cose la poesia
quando si spaccano
o si fanno vedere
come un cielo limpido
dove tutto è possibile.
Ciò che scrivo è una laguna:
le cose scorrono nelle parole,
però c'è meno sale.
Le parole sono già metafore
di ciò che resta fuori.
Certe volte sembra di mangiarle,
ma la carne, quella vera,
è altra cosa, ha un odore,
pesa nella mano.
Quando dico carne, la carne
sta tra il foglio e gli occhi,
in mezzo solo un filo
che non basta alle parole.