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Roberto Marino Masini: Uno sguardo, ecco

Da Narcyso

Roberto Marino Masini, PER DISPERATA OSTINAZIONE, L’Arcolaio 2014

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Ci sono grumi riconoscibili nella poesia italiana contemporanea – una volta si sarebbero chiamate scuole -. Non fanno più riferimento a manifesti, schematizzazioni e proclami, quanto a un certo modo di sentire, di avvertire.
Si tratta di consonanze, assai più efficaci della presunzione al cambiamento delle scuole; perché, capaci di cogliere più la sconfitta che il trionfo, la resa piuttosto che l’attacco.

Post scriptum…
Lo so,
domani toccherò la cikttà
troverò ciottoli e balconi dimenticati.
Vorrei fermarmi
tra uil rosmarino ed il mare,
vivere di nostalgia
promesse attese
voci spente.
Rinchiuso in un essere normale,
passeggiare nel nulla diverso.
p. 59

Siamo, dunque, nel territorio dell’abbassamento formale, del dato della vita che vive. Non è un caso che queste poesie riconoscano ambiti di appartenenza ma storicamente è chiaro che si potrebbe fare il nome di Saba, per quella dichiarazione di poetica con cui occorre fare sempre i conti quando si scrive e che va sotto la ben nota dicitura di “poesia onesta”.
Altri debiti sono sicuramente da ascrivere ai crepuscolari, attraverso, poi, la spinta storica
di un libro come “Umana Gloria”, ma tantissimi nomi, più o meno in ombra, si potrebbero evocare, anche con divergenze spesso notevoli, fino alla pratica di una geometrizzazione quasi asettica.
In questo libro lo spleen è perfettamente dichiarato, ed è proprio la malinconia, interpretabile non solo come risvolto di pulsioni autobiografiche, ma anche storiche e territoriali.
Sono poesie indissolubilmente legate a un paesaggio, “Grigio treno verso Trieste”… microcontesti famigliari e amicali – tantissime le dediche in questo libro – persino di inclusione nel tessuto delle parole, e per umana partecipazione, degli umili e dei diseredati.
Del resto, di questa decisione di muoversi nei contesti limitrofi della vita, quindi della parola, ce lo dicono tracce concretissime: l’utilizzo nella versificazione, di spazi lunghi tra un verso all’altro; la povertà delle immagini e degli oggetti, persino nel riconoscimento dell’estrema povertà del gesto di fare poesia, simile al graffiare la pietra, l’argilla.
Si può dunque isolare, dalle parole di questo libro, una poetica che mi sembra sempre più necessaria in tempi di cani sciolti e volpi imbroglione.

Perso come le parole che scrivo
lasciate lì a decantare,
nella speranza che qualcuno legga o ascolti
ma in silenzio per carità,
senza disturbare nessuno non si sa mai,
un lampo di dignità potrebbe far male a molti.
p. 66

Che cosa ci possiamo ancora aspettare, in fondo, dalla poesia, se non una scelta di campo (nostra); che è poi scelta di come vogliamo vivere, di quali parole vogliamo preservare?

Un requiem come inizio…
fare nuvole e sole,
giallo intenso pesante forse
ma un andare per una fine.
Alleluja.
p. 69

Insomma: un requiem come iniziazione.

Sebastiano Aglieco


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