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Regola generale: può sempre capitare di andare a letto con una donna e avere una defaillance; ma uno se entrando in camera da letto si è vantato, “Preparati, cara, arriva il nuovo John C. Holmes”, poi si merita tutt'intero lo sbuffo di derisione. Fuor di metafora, Ridley Scott non ha fatto un piacere al suo “Robin Hood” dichiarando a destra e a manca che nessuno dei precedenti Robin Hood dello schermo gli sembra soddisfacente. Conseguenza inevitabile, ogni difetto del suo - che non è brutto, ma difetti ne ha - viene amplificato.
In Scott la narrazione ha spesso qualcosa di lutulento. Vale anche per “Robin Hood”, che lascia l'impressione di essere un film di quattro ore ridotto con l'accetta a due ore e mezzo (come “Le crociate”). Basta vedere come un elemento assai interessante, e assolutamente scottiano, quello delle figure mascherate che sono i giovani del villaggio fuggiti nella foresta per fare i bracconieri, venga sottoutilizzato buttandolo qua e là per frammenti sconnessi.
C'è una discrasia fra la pomposa seconda parte e la prima parte (sembrano due film malamente appiccicati l'uno all'altro), discrasia che investe tutto il punto di vista narrativo. Perché il “Robin Hood” di Scott - l'antefatto della leggenda quale la conosciamo - si regge nella prima parte sulla scelta di non giocare l'avventura in chiave eroica bensì realistica, nei limiti consentiti dal genere. I Robin Hood dello schermo sono sempre stati declinati in tono eroico (anche “Robin e Marian”, questa elegia agrodolce dell'età matura) o eroicomico (non penso alla parodia di Mel Brooks ma al cartoon disneyano). In Scott, i combattimenti non mancano ma sono come tenuti sotto controllo - laddove l'eroismo implicherebbe la celebrazione. Anche nelle pagine dell'assedio al castello vige il fascino storico del warfare medievale più che il brivido dell'azione eroica.
Scott ha sempre parlato di quanto lo appassioni costruire un'ambientazione, ed effettivamente il meglio di “Robin Hood” sta qui: nell'interesse del film per l'immediatezza, i piccoli dettagli della vita quotidiana. Più d'una volta lo svolgimento si attarda ad ascoltare una ballata: c'è nel film un'attenzione vagamente folkloristica di Scott per le canzoni. E c'è attenzione alla materialità degli atti: il grazioso rimpallo quasi comedy fra Robin e Lady Marion (che devono fingere di essere marito e moglie subito dopo essersi conosciuti) si traduce nella descrizione di Robin che in camera di lei dorme per terra abbracciato per scaldarsi a uno dei suoi cani. Il film è arioso nel descrivere la festa paesana in cui i compagni di Robin corteggiano tre contadine bellocce, i poveri campi lavorati dalle donne perché gli uomini sono in guerra, la cavalcata mattutina di Robin e Marion per il paese... Il piccolo villaggio affamato di Nottingham sembra diventare quell'Eden che inutilmente si cerca in tutto il cinema di Ridley Scott. Ci sono nel film alcuni dettagli molto ben trovati: il pelo pubico rimasto sulla lingua al futuro re Giovanni sorpreso dalla madre mentre fa l'amore, il (simbolico) sangue sull'ostrica che il re francese offre al sicario dopo essersi tagliato aprendola – e quei topolini medievali senza paura che si spingono sul tavolo a mangiare il cibo nei piatti. A volte Scott raggiunge una efficace dimensione pittorica (l'arrivo trionfale della nave a Londra). E a coronare il tutto, un bel dialogo (“Non possiamo ripagare la nostra fortuna con la malagrazia. Sarebbe un invito alle tenebre”).
Poi Scott si dimentica tutto: il film ha una brusca svolta con una seconda parte piuttosto pasticciata, con enormi buchi logici e uno svolgimento tirato per i capelli (Robin Hood inventore e paladino della Magna Charta). Dal realismo plebeo di questa storia di falsa identità si passa al solito action in costume. La pagina dell'arrivo in forze dei francesi sulla spiaggia, e della battaglia che segue, è delirante e deludente allo stesso tempo: perché ripete per filo e per segno lo sbarco in Normandia di “Salvate il soldato Ryan”; non è una citazione ma un rifacimento pedantesco (la stessa inquadratura dei corpi sott'acqua, la stessa inquadratura delle frecce che attraversano l'acqua al posto delle pallottole) di totale gratuità.
Ma bisogna restare fino alla fine - non solo perché l'avventura è pur sempre l'avventura, non solo perché i film per principio si guardano per intero (se proprio non sono schifezze all'italiana), ma perché la parte più bella di tutto "Robin Hood" sono i titoli di coda. Opera di Giuseppe Toccafondo, sono un film post-film che ne riprende con meditato capriccio le immagini e le rielabora nel classico modo “esplosivo” dell'autore - nel senso che il colore e la deformazione della figura in Toccafondo sembrano esplodere dalla figura stessa, come ali, escrescenze, fiammate. Se questo sembra ovvio quand'è applicato al sangue e ai movimenti convulsi, Toccafondo va più in là, rielabora con quella sua creatività inconfondibile qualsiasi figura stimoli la sua fantasia (anche il grande gufo di Eleonora d'Aquitania, un bell'animale che si sospetta essere fra i sacrificati del montaggio). Si ha perfino l'impressione che vi siano immagini non presenti nel montaggio finale (la decapitazione di un moro). Toccafondo ha la diabolica caratteristica di rendere mosso quello che è già mosso, di donare il movimento a ciò che è già movimento – di magnificare l'immagine filmica con un movimento di secondo grado.
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