Se si facesse una classifica dei personaggi più rappresentati in assoluto del cinema e della televisione, un buon posto spetterebbe sicuramente a Robin Hood, il fuorilegge di Sherwood che, armato di arco e frecce, ruba ai ricchi per dare ai poveri. Le sue gesta sono state messe in scena in tutte le salse, dal classico cappa e spada La leggenda di Robin Hood del 1938 alla sempreverde edizione animata della Disney del 1973; l’ultimo ad averci provato è stato Ridley Scott, nel 2010, con il suo Robin Hood, che aveva creato molte attese di storicità rigorosa, ma che ha lasciato molti a bocca asciutta, soprattutto nel mondo della rievocazione storica. In effetti, parlando con molti di loro, ci si sente dire che il più “storico” dei film su Robin Hood è Robin Hood. La leggenda (1991), con la regia dell’Inglese John Irvin: poco conosciuto, la televisione lo ripropone di tanto in tanto, di solito nei “tempi morti”. Un mezzo fiasco all’epoca della sua produzione, subito soffocato dalla versione “kolossal” americana di Kevin Reynolds, uscita quello stesso anno: certo, questa non poteva contare sul “divo” allora incontrastato Kevin Kostner.
Come dar torto agli amici rievocatori? L’ambientazione dell’Inghilterra del periodo a cavallo tra il XII e il XIII secolo è resa molto meglio che altrove, quella di un paese (diremmo oggi) “in via di sviluppo”, ben lontano dalla grande potenza che sarebbe poi diventato in Età Moderna. Certo, il clima di oppressione creato dal regime feudale è stato un po’ esagerato, ma il particolare interessante è l’aver mostrato la componente etnica dei conflitti sociali: i ricchi cui Robin Hood e i suoi compagni rubano sono Normanni, che, dopo più di un secolo dall’arrivo di Guglielmo il Conquistatore, non hanno cessato di essere gli invasori agli occhi dei Sassoni, costretti a rinnegare le loro consuetudini per obbedire alle leggi dei nuovi signori. Tutto il film è incentrato proprio su questa lotta per operare una sintesi tra Sassoni e Normanni, rappresentati rispettivamente da Robin Hood (Sir Robert Hode) e dal barone Roger Daguerre. D’altronde, questo è stato sempre un luogo comune della letteratura e della cinematografia inglese sul Medioevo, a cominciare da Walter Scott. Altro particolare gustoso, spia della regia inglese, è la caratterizzazione di ognuna delle etnie di cui è composta l’Inghilterra: frasi come «Ah, spirito Sassone!» pronunciata da un Gallese che a sua volta riceve il lusinghiero appellativo di «pulcioso» da parte di un soldato Normanno contribuiscono abbondantemente a sfatare l’idea che abbiamo noi “Mediterranei” esterni di un popolo “inglese” monolitico e serioso. I dialoghi sono intrisi di questo humor virile e scanzonato che dà un tocco di realismo a una sceneggiatura non particolarmente degna di nota. Molto apprezzato dai rievocatori è anche il cenno all’arco gallese, arma innovativa e micidiale, che tanto avrebbe poi favorito gli Inglesi durante la Guerra dei Cent’Anni.
Indovinati gli attori, che hanno il solo difetto di essere quasi sconosciuti: Patrick Bergin è un Robin Hood che rinuncia ad un eroismo alla “Il Gladiatore” per trovarne uno più quotidiano e con una buona dose di ironia e autoironia; Uma Thurman (unico nome noto del cast) veste i panni di una Lady Marian dal temperamento deciso e scalpitante, pronta a tagliarsi i capelli e travestirsi da uomo per sfuggire a un matrimonio forzato ma che riesce a non cadere nello stereotipo del “maschiaccio”, mantiene la sua acerba femminilità di adolescente, anche con la spada in mano; Jeroen Krabbe interpreta, nel barone Daguerre, zio di Lady Marian, il difficile ruolo di nemico-amico, che per il suo ruolo di barone è il nemico naturale di Robin Hood, ma che, nel finale, saprà andare oltre.
Abbastanza buona la fotografia dai toni cupi e spenti, concepita per fotografare un mondo selvaggio e spietato, con tanto di cadaveri mangiati dai vermi.
Ma il vero tocco di originalità e rappresentato dalla scena che qui si può vedere: la processione dei Folli del 1 aprile che festeggia l’inizio della primavera (una sorta di Calendimaggio anticipato di un mese), sfruttata da Robin Hood e compagnia per entrare nel castello e impedire il matrimonio di Lady Marian con il crudele Sir Miles Folcanet. Un vero e proprio baccanale di costumi fatti di pelli, corna, foglie e teschi che ricordano molto le figure danzanti con teste di animali che si vedono nelle miniature del Salterio di Luttrell (XIV secolo); il tutto completato da un Fra’ Tuck che veste i panni del monaco gaudente improvvisando versi in rima, strizzando l’occhio ai poemi goliardici di XIII secolo. Evidente il contrasto tra questa festa dei poveri messa in piedi con poco ma sfrenata e genuina con la festa che si sta preparando nel castello, curata nei particolari, dal bliaut (abito) nuziale di Lady Marian alle coperte di pelliccia e petali di rosa sul letto ai festoni di fiori nella chiesa, il quale è però solo un gioco di potere in cui la damigella è merce di scambio. Damigella che si farà anche lei poetessa nella scena finale, cantando l’arrivo della primavera e la nuova vita di donna sposata a fianco del suo Robin.
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