Regia – José Padilha
In teoria, non avrei voluto scrivere nulla su questo nuovo Robocop targato 2014. Non si merita neanche una stroncatura. E non perché, diciamolo subito, sia un brutto prodotto, realizzato male, girato in maniera dilettantistica, o sciatta. Tutt’altro: la confezione di Robocop è pregevole e professionale. Su questo non si può discutere.
Padilha non è l’ultimo arrivato, ha diretto, in patria, un dittico che ha entusiasmato in lungo e in largo. Ha entusiasmato anche la sottoscritta. Purtroppo, una volta sbarcato negli Stati Uniti e messo a lavorare alla catena ,con un budget faraonico rispetto a quelli cui era abituato (un centinaio di milioni di dollari, stima Imdb), è diventato irriconoscibile, simile a tanti, troppi registi di servizio che girano action e film di fantascienza anonimi, tutti identici, tutti con la stessa fotografia, le stesse inquadrature, le stesse scelte stilistiche.
Ecco. Robocop è un prodotto del tutto privo di personalità. E quindi inutile. Ormai la professionalità non dovrebbe più essere considerata un parametro di giudizio per un film che costa la bellezza di cento milioni di dollari. Si tratta di un valore scontato. Parliamo di film che non escono se prima non sono state sottoposte a decine di proiezioni e screentest, film che vengono lavorati in post produzione a un livello quasi maniacale. Ergo, il fatto che Robocop sia anche piacevole da guardare, perché pulitino, patinato, con tutta la CGI più cool disponibile oggi, non è altro che il minimo sindacale. E poi, parlando di film fatti in serie, neanche fossimo al reparto sconti di Carrefour, in giro c’è anche di meglio.
I remake sono utili a una cosa: il confronto, di solito impietoso, con gli originali, ha spesso l’effetto di svegliarci da un sogno indotto in cui siamo precipitati tutti quanti. Risveglia la memoria (per quelli di noi che ancora hanno l’ardire di ricordare) di un tempo in cui il cinema commerciale non era solo una macchina tritaincassi, ma un luogo magico e meraviglioso dove registi con una propria visione, una propria, fortissima, a volte soverchiante, personalità, esprimevano i loro universi creativi.
Se dovessimo guardare una buona percentuale dei blockbuster che escono in sala da una decina (quindicina?) di anni a questa parte, potremmo tranquillamente continuare a sognare, e credere che il cinema sia sempre stato questo.
E invece no. Esce il remake di Robocop, si rivede l’opera colossale di Paul Verhoeven, proveniente dal preistorico 1987, e ci sembra di indossare i famosi occhiali di They Live.
La tentazione nostalgica, a cui mi rifiuto di indulgere, diventa allora davvero forte. Perché c’è qualcuno che vuole convincervi che vada bene così. Ed è un paradosso che proprio oggi, con la possibilità di andare a recuperare qualsiasi film, anche quelli di epoche remotissime, ci stiamo dimenticando di quanto sia bello il cinema. E ci accontentiamo di questa robetta precotta, ostinandoci a chiamarla film. Non sono film. I film sono altri. E Verhoeven potrebbe darvi più di una lezione in merito.
Ci sarebbero da scrivere pagine e pagine su come in questo remake non funzioni nulla: dalla prolissità e noia di gran parte delle sequenze, alla mancanza totale di scene d’azione degne di questo nome; dall’aver voluto edulcorare gran parte della violenza che la storia richiedeva, all’aver quasi del tutto azzerato il contesto distopico in cui quella storia viveva, e senza il quale crolla ogni spessore; da scelte discutibili, quando non ridicole, come quella di far saltare Robocop di qua e di là neanche fosse Spiderman, per esibirsi in un tripudio di effetti, all’aver voluto a tutti i costi eliminare la geniale e corrosiva satira di cui il Robocop del 1987 grondava.
Ma non è questo il problema principale, se si deve parlare di questo Robocop. Il problema principale è che l’operazione è avvenuta nel più totale anonimato. Anonima la regia, anonime le interpretazioni, anonima la sceneggiatura, piatta la fotografia, nessuna emozione e nessuna catarsi, nessun momento che resti scolpito nell’immaginario.
E, in fondo, il cinema che vogliono imporci oggi è questo: consumo rapido e altrettanto rapida espulsione. Neanche dobbiamo avere il tempo di digerire.
Lo giuro, avrei voluto usare altri toni: qualche battutina sagace su Robocop che va in moto, due cazzate sulla capigliatura di Samuel Jackson o sui lineamenti gonfi di Michael Keaton. Avrei voluto prendere in giro l’inespressività del protagonista (Joel Kinnaman), più simile a un tubero appena colto che a un cyborg.
Ma non riesco a ridere.
E non perché abbiano stuprato un mito della mia infanzia. Quello resta, è disponibile per chiunque voglia vederlo e ricordarsi che è esistito. E non viene danneggiato in nulla dal rifacimento di Padilha. Ci mancherebbe pure.
Non c’è niente da ridere perché Robocop è la fotografia del cinema attuale, almeno di quello più commerciale e indirizzato a un pubblico più giovane (PG 13, è bene sottolinearlo). E questo cinema dovrebbe, in teoria, insinuarsi nella fantasia di milioni di ragazzi e contribuire alla costruzione del loro immaginario.
Il vuoto.
Non c’è alcun immaginario da costruire e non c’è alcuno spunto, che sia estetico o di riflessione.
Ci sono solo i botti che stordiscono, ED-209 sicuramente meno ingessato rispetto al robottone animato a passo uno dell’originale, e qualche milione di dollari in più.
E ci siamo venduti un immaginario per avere un robottone realistico.
A saperlo prima, neanche mi ci appassionavo, al fottuto cinema.