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Rocciacavata (1994) - Prima parte

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Rocciacavata (1994) - Prima parte

Rocciacavata: un minuscolo travaglio di paese in cima a un cocuzzolo, non di case, ma di spelonche, a quattro, a cinque strati. Spelonche moderne, marsupiali, veri mammiferi dormienti; smussate, rabberciate, raddrizzate, intersecate da viuzze, straduzze, di sotto, di sopra, di sguincio, di sbieco, a dritto e a rovescio. E l’immagine della Stampa del Pacichelli svanita, nel nulla, come nebbia, dopo secoli di stanchezza. Dissolto il Castello svevo del XIII secolo, i conventi avversi, le mura; anche la mia curiosità. Soggiornavo in una spelonca, presso una vecchia affittacamere, non distante dal luogo designato come il centro del paese. Attraversavo un ripido vicoletto e mi trovavo in piazza; nella direzione opposta, finivo in mezzo agli orti. Al mattino chiedevo alla vecchia Filomena di “visitare” il Castello. Le sue grinze mi scrutavano, mi guardavano, e una bocca sdentata mi ricordava d’esser straniero in quella terra. La vecchia neniava «u castillu, u castillu, provessò, nun c’è chiù e i signuri nun ci su’ chiù. U castillu se ne ghiuto cu’ i Signuri». Così sentenziava. In quella piazza un tempo c’erano le Pescherie del Principe; ora, un cubico edificio di mattoni rossi, tarchiato, dominava la scena con su’ scritto: Ufficio delle Poste e Telecomunicazioni. Un ragazzo esile, taciturno, nipote della vecchia, mi guidava su una breve scarpata; rispondeva a monosillabi; suoni quasi gutturali. Una volta a crociera: ecco tutto ciò che io chiamavo castello. Al suo posto le scuole elementari e, a fianco, una grande cabina idroelettrica con un piccolo parcheggio. Domandavo allo Psicopompo ragguagli su quel demolìo, e in cambio ricevevo soltanto farfugliamenti.

Riflettevo sulle parole della vecchia, sulla furia iconoclasta, e sui miei sentimenti di storico. Mi sembrava che la memoria fosse offesa dal bisogno di edificare su quelle macerie forme nuove di vita. Distruggere: il segno postumo della fine di un’epoca; un modo per cancellare tracce di un dominio secolare. Camminavo nella parte bassa del paese; e il filo continuava a intrecciarsi. Tra quelle mura vecchie, scrostate dal ciclo delle stagioni, come cimeli abbandonati, resistevano piccoli brandelli della Stampa secentesca. Da quelle fredde e spente abitazioni, il cammino cieco del progresso s’arrampicava verso mete più alte. Notavo che chi non aveva avuto la felice sorte di inerpicarsi nella zona alta del paese, e costruire non solo per sé, ma neanche per tutta la genìa che quella terra rinsecchita avrebbe ospitato, continuava ad abitare in quei tuguri angusti. Gli strambi palazzotti, le moderne spelonche, gli architettonici parallelepipedi, i cui piani variavano in proporzione alla prole, e la cui lunghezza delle scale si misurava dalla fatica necessaria a salirle, erano divenuti emblemi del loro prestigio. Il retrostante delle abitazioni poggiava sul dorso delle pareti rocciose. Ai lati, altre costruzioni si addossavano. Solo una facciata restava scoperta, disturbata peraltro dalle abitazioni prospicienti. Questa ingegnerìa architettonica aveva avuto il risultato di prolungare l’inverno di qualche mese. Ecco un tipico esempio di abitato dalla forma allungata. Da una collina rocciosa, sormontata da una torre di vedetta, si era originato il paese, intorno al quale furono poi costruite delle mura di difesa. Il borgo si era esteso spontaneamente, avvolgendosi attorno alla cerchia anulare del secolo XI. Un altro ampliamento si ebbe nel secolo XVII, quando alla parete nord-est si saldò un lungo braccio di case. Osservavo nel mio giro di ricognizione il suo recente sviluppo. Notavo che l’abitato si era allungato sia in direzione della zona Nord-Est (alle spalle del Castello demolito) che verso Sud-Est.

Trascorrevo delle giornate tranquille, senza scosse: almeno le prime. Mi svegliavo presto al mattino, sistemavo gli appunti, e poi in biblioteca. Poche distrazioni concedevo all’immaginazione. La cameretta dove dormivo aveva una piccola finestra che dava direttamente sulla strada. Poi avevo a disposizione un’altra stanza con un ampio terrazzo, ma l’unica visione che s’offriva alla mia vista era un’abitazione bassa e fatiscente, dall’aria abbandonata; e un’altra addossata ad essa, la cui facciata laterale, grezza e cieca, mostrava, come in una radiografia, il suo scheletro interno: il tracciato delle scale, l’altezza dei solai, persino il tempo intercorso tra la costruzione di un piano e l’altro, perché cambiava la natura dei laterizi; i primi piani costruiti con mattoni pieni, gli altri con mattoni forati. L’altra facciata tinta di giallo era esposta sul lato Sud-ovest. Dal mio punto di osservazione, i balconi che s’affacciavano su questo lato s’offrivano di taglio, cioè io potevo scorgere il profilo di qualcuno quando s’adagiava sulla ringhiera, ma non potevo guardare dentro quelle abitazioni. Queste case, come dicevo, si trovavano ai margini del paese, il vicolo attraverso cui si accedeva ad esse finiva in mezzo agli orti. Non era quindi usata come strada di passaggio. Anch’io potevo stare con la finestra aperta perché non c’era nessun timore che qualcuno potesse guardare dentro. La casa di Filomena era stata costruita sulla sommità di una roccia, il lato occidentale dava su uno strapiombo vertiginoso. Infatti, per accedere alla mia spelonca, che aveva un ingresso indipendente, dovevo percorrere una lunga scala esterna posta sul lato meridionale della casa. Per la sua altezza avevo paura a volte a guardare giù. Quando mi affacciavo cercavo sempre di tenermi strettamente aggrappato a qualcosa per paura di precipitare. Non capivo perché i costruttori non avevano pensato ad aprire le finestre sul lato occidentale, da cui si sarebbe goduto una esposizione più bella e certamente più luminosa. Infatti, il sole colpiva le due stanze soltanto al mattino, il pomeriggio me ne stavo completamente all’ombra.
Avevo sistemato fuori, in terrazza, un tavolo piccolo. All’aria aperta mi sentivo più a mio agio. Erano le prime giornate calde di maggio, e intorno a me c’era tanto silenzio. Leggevo comodamente dei documenti e intanto prendevo degli appunti. A quell’ora, in pieno pomeriggio, con il sole che cominciava a scottare sopra i tetti, i nativi preferivano rimanere rintanati nei loro antri, all’ombra. A me quel caldo non dava fastidio, anzi, quella luce accecante, giallastra, che penetrava inesorabilmente in ogni angolo di strada fino a cancellarne i contorni, mi piaceva. Così come mi piaceva osservare il muro vecchio della casa di fronte. In mezzo vi si aprivano delle crepe, da cui fuoriuscivano germogli di vitalità. Quel muro screpolato mi richiamava alla mente i tanti secoli trascorsi sopra le nostre teste, senza lasciare tracce, se non quei segni, incisi dalla calura estiva, dalla pioggia scrosciante, o dalle fredde giornate d’inverno, incisi dal caso e senza nessun disegno prestabilito, come capita talvolta alla nostra vita.

Tentavo di indovinare, nella sua architettonica geometria, le modifiche apportate dalla mano dell’uomo a quell’edificio. M’accorgevo come fosse piacevole abbandonarsi ai propri pensieri senza una meta precisa. Osservavo ancora quelle crepe incise nel muro. Al loro interno non penetrava nessuna luce, erano troppo profonde. Anche nella storia umana a volte s’aprono crepe in cui la luce non riesce a penetrare. Come capita alle azioni malvagie che hanno sempre il potere di cambiare forma e di non lasciarsi riconoscere. Anche l’azione malvagia germoglia meglio nell’oscurità delle fenditure. La sigla di un telegiornale irruppe nella quieta pomeridiana. La voce del giornalista rimbombava tra quelle mura e penetrava in ogni screpolatura. Il disturbo della quiete proveniva da qualche finestra del palazzo a fianco. Mi aveva incuriosito nei giorni che seguirono osservare le persone che ogni tanto vedevo esporsi a quei balconi. Nel punto in cui studiavo, scorgevo le loro sagome. Quei balconi si erano rivelati come un palcoscenico e il loro interno come ciò che accade tra le quinte. Al quarto piano vedevo, quasi a ore regolari e quotidianamente, una biondina stendere i panni; a volte la vedevo parlare con un uomo a fianco, forse il marito: discutevano stando appoggiati alla ringhiera; al terzo, c’era un grassone che si metteva a fumare in determinate ore della giornata; al secondo, il profilo di una donna sulla cinquantina (ma a Rocciacavata è difficile indovinare l’età delle donne, perché sembrano invecchiare precocemente!) dall’aria triste che sembrava guardare nel vuoto, come fosse in attesa di qualcuno che non tornava mai. Ogni tanto, sentivo un bambino strillare…


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