Rocciacavata (1994) - Quarta parte

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Mi trovavo in chiesa. Le parole di Clara sui documenti e su Don Vincenzo avevano solleticato la mia curiosità, ed ero capitato nel momento in cui il prete «recitava» l’omelia (e devo scrivere recitare perché di questo si trattava). Mentre ascoltavo le parole di Don Vincenzo sulla vanità dei beni materiali, non potevo fare a meno di pensare all’immagine della baronessa. Le avevo chiesto che tipo di sacerdote fosse. Avevo dato alla domanda un significato alquanto sfumato. E la sua risposta vi aveva pienamente corrisposto. Infatti, la baronessa mi aveva detto che se durante uno dei suoi famosi cenacoli artistici avesse in una notte sentito bussare alla porta e visto un giovane intirizzito dal freddo e dalla pioggia che lo implorava di andare con lui perché il padre in quel momento stava per morire e chiedeva l’estrema unzione, Don Vincenzo avrebbe spaventato guardato il cielo e, rivolto dalla parte dei suoi amici, si sarebbe scrollato le spalle e avrebbe detto: se esco anch’io in una notte come questa, rischio di ammalarmi... ragazzo mio... anch’io sono vecchio...dì che passerò domani. Ora seguivo l’omelia di Don Vincenzo sulla vanità del mondo e ascoltavo le sue volute sintattiche, i verbi e gli aggettivi ricercati, le sue pause cadenzate, i toni della voce diventare aspri quando il disprezzo del mondo toccava le punte più alte, e aleggiare quando, in una carezza tenera, sfiorava le parole “umiltà”, “effimero”, o citava la “vana gloria dell’umana posse!”.

Appena finito di officiare la funzione, lo avevo seguito in sagrestia. Stava in mezzo a due uomini, che discorrevano animatamente tra loro, mentre lui si spogliava dei paramenti sacrali. Il primo, alto e giovane, portava una barbetta ben curata e degli occhiali rotondi e cerchiati in oro, il secondo, piuttosto vecchio, ma con un vocione che soprastava tutti, aveva un aspetto corpulento e non smetteva di agitare le braccia. Si capiva subito che discutevano dei significati reconditi dell’omelia di Don Vincenzo. Li avevo infatti sorpresi, durante l’omelia, in prima fila, tutti protesi in avanti nell’intento di non lasciarsi sfuggire nemmeno una stilla della dolce eloquenza del prete. Per scusarmi dell’intrusione, avevo cominciato a tossire leggermente e tutt’e tre si erano girati dalla mia parte in un coro di saluti. Mi ero permesso di entrare, stavo spiegando, per parlare al sacerdote di una questione, e, nel frattempo, mi presentavo. «Ma non necessitano presentazioni da parte vostra, diceva il parroco, poiché siete in questi giorni l’uomo più rinomato del paese. Siamo al corrente dei vostri meriti ed è risaputo che state raccogliendo prische notizie sulla nostra cittadina». Poi era passato alla presentazione dei due amici, e diceva, indicando il più giovane, che mi trovavo di fronte a un promettente talento, il cui nome un giorno sarebbe rimasto scolpito nel firmamento delle glorie umane. Si chiamava Armando Fiaccarino. Un rossore era apparso sulla faccia del giovane talento. Poi era passato a presentarmi un raro e sottile frequentatore del grande Benedetto Croce, nonché direttore de “Il grido di Rocciavata”: Pietro Campano. «Sono venuto da lei, dicevo, in ragione della mia ricerca storica». Il prete mi aveva data l’impressione che le mie parole avessero suscitato nel suo comportamento un fastidio impercettibile. «Ma cosa può mai fare un umile sacerdote di Cristo per un ingegno del vostro stampo?». Mi diceva dinoccolando tutte le membra. Ero passato alla spiegazione della visita cominciando a parlare della baronessa. Ma non avevo nemmeno finito di pronunciarne il nome che il prete aveva cominciato a dire: «La baronessa, quella femmina esecrabile... quella femmina saccente... quella costola insana di Adamo...». Intanto che il prete sciorinava il suo inno, non mi era sfuggito che la faccia del giovane «talento» fosse diventata ancor più rutilante, mentre il vecchio continuava a ridacchiare, e con gusto. «Come era possibile, diceva Don Vincenzo, che un uomo di cotanta scienza si lasci contaminare da simile lubricità? Non c’è usbergo che tenga contro tale femmina!». «Se il nome della baronessa le ispira così foschi pensieri...». «Giammai! Giammai!», ripeteva Don Vincenzo, come se brandisse una spada: «Giammai una tal femmina potrebbe destare in me ostili presagi». Dopo quella reprimenda evitavo di fare il nome di Clara e con calma avevo cominciato a parlare della ragione della mia visita. Don Vincenzo mi aveva invitato a seguirlo nella canonica dove teneva custodite le carte. I suoi amici nel congedarsi lo avevano cordialmente salutato, mentre avevo notato una certa freddezza nei miei confronti, soprattutto da parte del giovane. Ci dirigevamo verso la canonica. Don Vincenzo spiegava che l’arciprete della Chiesa di S. Elia, monsignor Gaetano Maria Mazzotta, per adempire con maggior comodo ai doveri del proprio ministero, aveva posto mano intorno al 1853 alla costruzione di un caseggiato ad uso abitazione, appoggiandolo dalla parte di Oriente alle mura della Chiesa, facendo l’entrata fianco della porta, e sopra la piazzetta murata che le stava davanti. Ma la prima sensazione provata nel mettere piede nell’abitazione era il senso di trascuratezza che sembrava avvolgere ogni oggetto. Non si trattava semplicemente di disordine o di sporcizia. I miei occhi scrutavano con discrezione tra gli arredi e le pieghe dei mobili, disadorni, opachi. Ogni oggetto dava l’impressione di vivere in un abbandono desolato. C’era nell’aria un odore di cera e di muffa, di quella emanata da cenci e roba vecchia. Su quelle grigie pareti, annerite, la sagoma del prete si stagliava netta, quasi senza rilievo.

Don Vincenzo mi indicava la sua parca libreria e mi parlava delle sue letture preferite: si vantava di essere intimo conoscitore del Foscolo, vale a dire dell’esecrabile poeta, di cui conosceva a memoria tutti i Sonetti, che amava recitare solo ai fini intenditori; e di Zola, che avrebbe voluto far vacillar la sua fede, senza però aver fatto i conti con le Sacre Scritture, che riducevano il grande scrittore ad un meschinello. Non disdegnava nemmeno la lettura blasfema di Goethe, che come tutti i tedeschi era ateo e sacrilego: è vero, era uno scrittore «focoso», ma a mitigarlo c’era il sobrio e moderato Giusti e uno scrittore dalla penna felice come Gioberti, di cui si onorava di portare il nome. E c’erano alcuni tomi di Sant’Agostino, e San Tommaso, due menti eccelse, e la immortale Divina Commedia, il cui autore, mi confessava quasi bisbigliando, era, per via di quella storia dei Templari, della Croce e dell’Aquila, certamente in odor di eresia. Ma Dante era Dante e non si poteva certo disconoscere la sua grandezza. Di fronte ad un poeta così marmoreo e granitico, il tedesco Goethe diventava un nanerottolo, e pronunciava la parola «nanerottolo» sillabandola mimicamente. Di tutti questi libri, mi diceva ancora Don Vincenzo, amava trattenere il succo, la sostanza e non avvertiva affatto il bisogno di altre letture. Egli si comportava diversamente dalla baronessa Clara De Miranda, che si reputava moderna perché, sospinta da un’insaziabile sete di conoscenza, si comportava come quel viaggiatore che non ha né il tempo né l’agio di soffermarsi negli ameni paesi che visita. Non appena arriva in un posto, dopo uno sguardo superficiale, subito viene rapito dall’ansia di scoprirne altri e più lussureggianti. E alla fine del suo peregrinare, di tutti i posti visitati non ricorderà che qualche nome. Consideriamo, invece, l’esempio dagli antichi: credete che abbiano fatto lettura di libri più grande di quel che avesse fatto lui? Seneca, Virgilio erano parchi lettori, eppure hanno prodotto una sapienza immensa. Il loro segreto, come modestamente mi rivelava, consisteva nel leggere sempre le medesime cose. Anche per lui la lettura era un’esercitazione continua sullo stesso tema. Era solito ripetersi più e più volte le frasi che leggeva nella mia mente, fin a distillar dalle loro membra tutta la sapienza. «Il suo ideale di lettura è per certi versi lodevole. Ma sul fatto che Seneca o Virgilio ai nostri giorni sarebbero diventati lettori stitici sono piuttosto scettico». «No, no, caro professore, permettetemi di correggere la vostra opinione. Noi, dianzi alla grandezza degli antichi, non possiamo che prostrarci. Nessuno, vivendo ai tempi nostri ma con l’abito dell’antico, avrebbe avuto l’ardire di trasformarsi in un... divoratore di libri. Io ebbi degli antichi conservato la mentalità, la quale è senza dubbio superiore alla nostra. Noi siamo soltanto epigoni, anime crepuscolari d’una epoca luminosa. Capisco come per voi sia difficile disdegnare molteplici letture, senza le quali non potreste dire la vostra opinione. Ma anche voi siete uno scrittore di libri e, quindi, un creatore di posti... magari poco ameni, dove i visitatori andranno a trascorrere qualche giorno della loro vita. E allora, nel vostro intimo profondo non preferite un lettore come me ad una lettrice come... la baronessa, che alla prima occasione, dimentica la gratitudine dovuta alla vostra fatica e volta la sua distratta attenzione altrove?». Ma il prete non aveva considerato che se in giro ci fossero stati lettori del suo stampo, i miei posti poco ameni non avrebbero visto del visitatore neanche l’ombra. Difatti, se si restasse fedele a poche letture e non si avvertisse il bisogno di allargare le proprie conoscenze, gli scrittori dovrebbero appendere le loro penne al chiodo. Io volevo fargli capire che per me il libro rappresenta un dialogo tra l’autore e il lettore, e se questo dialogo si allarga non c’è nulla di male. Anzi. Non immaginavo che Don Vincenzo volesse trascinarmi quella sera in una discussione del genere. Capivo, però, che in quel momento interloquiva non con me; dietro la mia persona, Don Vincenzo scorgeva il profilo sognante della baronessa. I suoi discorsi erano soprattutto indirizzati a lei. Io ero soltanto il suo latore. Non appena si parla di avere molti lettori è facile incorrere nell’errore di credere che si voglia sostenere di misurare la qualità di un libro dal successo di pubblico. E questo errore non era stato evitato nemmeno da Don Vincenzo. «Non si tratta, Don Vincenzo, di questo che è una questione oziosa». Intanto guardavo fuori l’imbrunire della sera; Don Vincenzo mi sollecitava a chiarire meglio il mio pensiero, ma era tardi e io non volevo lasciarmi sedurre da quella discussione. Dissi a Don Vincenzo che ci avrei riflettuto meglio e, cortesemente, mi congedai.

Ero uscito dalla canonica con in mano il fascicoletto di documenti e con la persuasione che le mie parole sull’utilità di fare svariate letture fossero cadute nel vuoto. Anche il prete era convinto che in quelle carte non ci fosse nulla di interessante. Prima di salutarmi, il parroco avvertì il bisogno di mettermi in guardia nei confronti di quella femmina eccedente. Lo ringraziai dei documenti, ma aggiunsi che in verità a me sembrava eccessivo il suo avvertimento, e comunque, aggiunsi, un’occhiata a quei documenti non mi avrebbe di certo nuociuto! La sera scendeva leggera con le sue ombre fioche, proiettando i suoi riflessi primaverili sui tetti e sulle colline. M’avviavo verso casa, mi sentivo soddisfatto: un soffio d’aria fresca mi penetravano in petto. M’accorgevo in quel momento che se Don Vincenzo aveva in realtà parlato con la baronessa, io avevo dialogato con me stesso. Ripensavo alla discussione con il prete. Certo, pensavo, c’è chi scrive per un pubblico vasto e anonimo e c’è chi scrive per una cerchia ristretta di lettori. Io ho scritto soltanto saggi storici, e so già che i miei lettori saranno sempre pochi. Ma lo storico non è forse anch’egli un affabulatore? Non crede che le storie ch’egli racconta siano ricostruzione di fatti e avvenimenti realmente accaduti, e che, come un narratore, inventa i propri personaggi e le loro azioni? Entrambi non si sforzano di trovare un nesso, un legame che unisce la vita di un personaggio a un’altra, che unisce l’azione susseguente a quella precedente? Non cercano entrambi di dare un senso allo svolgimento del tempo, delle cose e degli eventi? Il lettore di Don Vincenzo è un viaggiatore che decide di stabilirsi per sempre in un luogo, di conoscerlo sino in fondo. Ma così facendo, egli smette di esercitare la sua curiosità poiché si sente appagato di quel che conosce. Il mio lettore ideale, invece, è colui che ha smarrito la direzione del suo cammino, che è assillato da dubbi e insegue delle tracce perché capisce che al di là della esistenza esistono altre possibilità di vivere. E le tracce si possono interpretare a più livelli, tutto dipende dal grado di conoscenze che il nostro viaggiatore possiede. E quando avverte che qualcosa gli sfugge, e non sa come interpretarlo, non dà la colpa alla imprecisione o alla scarsa chiarezza della traccia, ma alla sua scarsa conoscenza, che non gli permette di penetrare sino in fondo il loro significato. Lo storico o il narratore sono coloro che lasciano queste tracce con il loro lavoro, perciò conta poco la quantità dei lettori. L’ascolto di quelle voci a tratti scoppiettanti mi aveva destato da una profonda assenza. Da tempo ormai il senso delle mie ricerche s’era un po’ assopito; e quando ciò accade si va’ purtroppo avanti quasi per inerzia. Da un pezzo avevo smesso di interrogarmi su quel che facevo, ed ero entrato in quella fase in cui si comincia ad accettare il proprio lavoro come un’attività tra le altre. Perciò avevo quasi completamente dimenticato la mia giovanile riflessione sull’uso della spiegazione nella ricerca storiografica. Sentirmela ricordata in quei luoghi e dopo molti anni mi risuonò come un richiamo alla mia vocazione giovanile, agli anni universitari quando ero ancora nel pieno degli entusiasmi. Negli ultimi tempi provavo un senso di vuoto, di distacco, dalle cose dalla gente. Stavo in mezzo a loro, eppure mi sembrava d’essere assente, come se ciò che ascoltavo o vedevo non mi riguardasse. Riuscivo soltanto a interessarmi alle mie ricerche, anche se ormai non mi importava più né lo scopo né il senso di quell’interesse. Vivevo assorto in un mondo chiuso. Per il resto, stare in mezzo agli altri, mi sembrava una perdita di tempo, anzi un obbligo sociale al quale non potevo sottrarmi. Quella sera, invece, cominciavo a percepire, senza ancora capire la ragione, che, attraverso quei miei primi dialoghi in paese, con la baronessa, con il parroco, un modo diverso di dialogare, e nuovo con il passato, con la storia s’era destato in me. Persino attraverso quelle persone, che scorgevo ogni giorno affacciate sui balconi, quelle persone le cui vite m’erano ignote, così come sconosciuti m’erano i loro dolori e le loro gioie, cominciavo ad avvertire una relazione storica tra me stesso e loro, e a questo rilievo corrispondeva nel mio animo un’illuminazione nuova. Cominciavo a comprendere che l’essere capitato in quel luogo dove il trapasso dall’antico al moderno avveniva in modo così tumultuoso, inquieto, e colmo di contraddizioni, mi aiutava a stabilire un contatto reale e concreto con la storia, e quindi con i miei simili, a ricucire strappi tra il presente e il passato. Vivere quella “stupefacente accelerazione della storia”, per esprimermi con i termini di uno scrittore moderno, dava un senso nuovo alla mia ricerca; persino i personaggi di cui mi occupavo non mi apparivano più ombre di fantasmi, ma esseri dalle fattezze umane.


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