La parola «scomparsi» mi aveva provocato un tuffo al cuore, e non faceva altro che rafforzare i miei sospetti. Per un attimo avevo persino creduto che tutte le sue manovre fossero dovute a qualche richiesta imprecisata in cambio di quei documenti. Mi sforzavo di restare calmo aspettando che lei scoprisse il suo gioco. Parlavo come se volessi stornare la sua attenzione: «Lo storico, dicevo, deve attenersi solo ai fatti, a quanto può accertare. Tutte le ipotesi sono interessanti, ma se qualcuno nasconde dei documenti, rimangono campate in aria. Anche nel sequestro o assassinio di un importante uomo politico possiamo scorgere complotti e congiure, ma se non saltano fuori documenti si faranno solo congetture». Alla mia allusione Clara era rimasta ammutolita. Cominciavo allora, quasi con dispetto, a ritorcere contro di lei le critiche che prima aveva mosse nei miei confronti: io non seguivo nessuna catena di cause ed effetti, mi limitavo semplicemente a studiare i fatti attraverso i documenti e a formulare ipotesi di ricerca. In realtà, era lei che aveva in testa un suo disegno precostituito e cercava sostegni che lo confermassero. Ritornando alla mia ricerca storica, dicevo, io mi avvalevo soltanto di prove documentate. Ma Clara continuavo ad aver i pensieri rivolti altrove. Non le interessava nemmeno replicare alle mie parole. Ad un tratto aveva cominciato a guardarmi fisso negli occhi e a domandarmi: «Ma se lei scoprisse una verità e non fosse in grado di dimostrarla, come si comporterebbe?». In un primo tempo volevo replicare dicendole che non esiste una verità indimostrabile, ma mi ero subito reso conto della debolezza di questa mia risposta. Dopo un attimo di esitazione avevo detto tutto d’un fiato che me la sarei tenuta per me. Non solo Clara aveva ragione, ma i miei sospetti su di lei si rivelarono meschini. Il giorno prima, quando analizzavo e studiavo l’inventario, avevo notato che insieme a quel documento v’era allegata una serie di incartamenti. Si trattava di alcuni «processi» di un «notamento della fabrica del Castello». Ma non avevo notato che in mezzo a quell’incartamento c’era una lettera indirizzata al Principe Gironimo e scritta dal suo conestabile, Roberto De Villa. Era questo il documento al quale Clara alludeva. Anche a me aveva dato l’impressione che in effetti tutta la documentazione fosse stata spedita in blocco. La data della lettera era pressappoco vicina a quella dell’inventario. Anche i documenti relativi ai processi sembravano interessare il destinatario della lettera, perché riguardavano alcune cause di ipoteche che gravavano sul castello del duca. Il principe voleva certamente informarsi sulla solidità patrimoniale del futuro genero. Si capiva subito, leggendo quelle carte, che nei processi il duca era riuscito sempre a spuntarla. La lettera, invece, riguardava direttamente la vita di Alfonso, e si diffondeva nella descrizione di particolari sul suo fisico e sul carattere. Nella lettera si diceva che il duca era piccolo di statura, di viso rotondo, con occhi glauchi, ma nell’insieme grazioso. Aveva un temperamento flemmatico, e il fisico delicato e debole, con una strettezza di petto e un respiro affannoso. I medici dicevano che con difficoltà egli poteva vivere lungamente. Dormiva molto, si levava due ore prima del desinare, a mezzogiorno. Subito levato, si metteva a tramenare con lambicchi e boccie di vetro. Mangiava poco, ma sempre cose di buona sostanza, e si asteneva quasi da ogni sorta di frutta e di pesce. Vestiva delicatamente, e in tutte le operazioni si comprendeva maniera e grazia. Si dimostrava molto religioso, come quello che frequenta assai i divini officj, e quattro volte all’anno si comunicava. Faceva professione di voler diventare devoto difensore del Principe di Rocciacavata, cosa che non si separava però dall’utile beneficio suo proprio. Quanta a liberalità non c’era alcuno più largo e cortese di lui, perché con donativi e con la grazia supera l’aspettazione di chi domanda. Dunque, pensavo, per scrivere queste notizie sul carattere e sulle abitudini del Duca, il fedele servitore del Principe aveva dovuto trascorrere un certo periodo di tempo in quel castello. Forse il principe cercava un pretendente per sua figlia e aveva spedito Roberto De Villa alla corte del duca per osservarlo e riferire sulle sue condizioni. Sinceramente quella lettera, capitata in mezzo all’inventario e a quelle carte processuali, mi insospettiva. Non volevo certo dar credito ai sospetti di Clara, ma la faccenda non mi appariva molto chiara. Mi sembrava che il principe avesse mandato il conestabile in missione, non soltanto per osservare le abitudini e il carattere del suo futuro genero, ma anche con lo scopo preciso di indagare sulla sua situazione patrimoniale. Inoltre, pensavo, il principe era stato informato sulla salute malferma del duca: allora a che scopo decidere di dare la propria figlia in sposa a un uomo così cagionevole? È vero che il problema della discendenza non si poneva perché aveva un secondo figlio maschio, ma sembrava che questo particolare non fosse trascurabile nella decisione della scelta. Mi chiedevo se in realtà il principe aveva deciso questo matrimonio proprio in ragione di quelle informazioni, forse contava sul fatto che il duca non vivesse a lungo per far ereditare alla figlia un patrimonio solido. Sapendo di essere vicino al fallimento, voleva assicurare alla figlia un avvenire sicuro. Avevo dunque di fronte un padre premuroso che si preoccupava dell’avvenire della figlia. Eppure, il pensiero che dietro a quel matrimonio si potesse nascondere una losca manovra del principe mi aveva attraversato la mente come una scossa elettrica. A quel pensiero trasalivo. Lo respingevo. Ma quanto più lo rifiutavo tanto più si insinuava tra i miei pensieri. E li dominava.
L’immagine del principe Gironimo iniziava ad allungarsi sinistramente, e ad assumere un altro aspetto, meno nobile: improvvisamente, come accecato da una folgorazione, dietro quell’immagine prima così tenera e commovente, appariva un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. Ma era durata pochi attimi. Bisognava esaminare la lettera con maggior cautela, mi dicevo. In essa, il conestabile non faceva riferimento a sintomi di squilibrio: quindi, il principe non poteva prevedere il futuro esito di quel matrimonio. Ma poi un altro particolare, su cui prima non avevo mai riflettuto, aveva cominciato a turbarmi: perché il duca aveva deciso di imparentarsi con una famiglia dissestata economicamente? Il duca non poteva certo ignorare in quale stato versassero le casse del principe: perché dunque quella decisione? Mi accorgevo sotto l’incalzare che quelle domande che ciò che prima avevo considerato come una vicenda del tutto marginale, cominciava ad assorbire il centro dei miei pensieri e della mia ricerca. Ancora una volta mi chiedevo se in realtà non mi lasciassi suggestionare un po’ troppo dal comportamento di Clara. Ero arrivato a Rocciacavata animato da ben altro spirito; e ora mi trovavo, quasi senza accorgermi, a dover sviscerare una storia dalla trama gotica: una congiura, un delitto forse premeditato, la condanna di un innocente. Mancava solo che in questa trama Clara si rivelasse la reincarnazione della principessa Letizia, che dopo secoli di oblio chiede giustizia, e poi ci sarebbero stati tutti gli ingredienti necessari per scrivere un romanzo. L’idea mi indispettiva. Già, il mondo non mi avrebbe più conosciuto come lo storico serio, autore de Il secolo di Leone X e di Verso un nuovo Medioevo, bensì come uno scrittore che si diverte a metter la sua cultura storica al servizio di svenevoli signorine facili preda delle lagrime e della commozione. Non volevo trasformarmi in quello che avevo pensato. Leggendo la lettera del conestabile, però, mi dicevo, forse Clara su un punto ha ragione: anche se erano ormai anni che mi dedicavo a questi studi, e conoscevo, si può dire, tutte le cifre e le spese di coloro che regnarono su quel feudo, a me in realtà ancora sfuggivano i meccanismi reconditi della loro anima. Ero in grado di ricostruire ogni spesa, ogni debito contratto ed estinto; le transazioni, le rendite di ogni cespite, il pedaggio di una strada, di un ponte; sapevo quando rendeva mensilmente il Jus Scandagi, il Jus venationis o il Jus portolaniae, la gabella della seta; sapevo come trascorreva la giornata quotidiana del principe, come si vestiva, si divertiva, i suoi passatempi preferiti, persino il tipo di pesce che sceglieva quando c’erano ospiti, i canti che ascoltava; riuscivo anche ad immaginarmi come rideva, come si rivolgeva alla servitù, come si arrabbiava quando un suo comando non era eseguito secondo i suoi voleri; sapevo perché i documenti riportavano tutto ciò; ma in quei documenti non c’era scritto quali erano i suoi pensieri veri, quali i moti dell’animo che lo spingevano ad agire, come giudicava effettivamente coloro che lo circondavano, cosa pensasse della figlia, del duca, del conestabile, del padre, del Rey, ecc. Credevo di conoscere a memoria la vita di questo principe, e mi accorgevo, invece, che non sapevo che l’involucro. L’essenziale rimaneva celato alla vista dello storico: e Clara mi aveva aiutato, non so quanto consapevolmente, ad aprire uno squarcio in quell’anima impenetrabile...