Magazine Cultura
Ciao a tutti!
Scusate l'assenza di questi giorni ma tra qualche impegno e qualche problema di rete non sono riuscito a pubblicare niente.... Bene, è tempo di ricominciare! Oggi vi presento un nuovo album che mi ha davvero sorpreso....
Di cosa si ha bisogno quando ci si trova in una situazione difficile? Di carica ovviamente, di quella spinta che fa resistere senza farsi schiacciare, e la carica in questione è divisa in 15 tracce e si intitola "Between the Devil and the Deep Blue Sea", letteralmente "Tra il Diavolo e le acque più profonde del mare"; la situazione è decisamente tosta, ma a farci resistere mentre siamo intrappolati ci sono i Black Stone Cherry, nome che deriva dalle sigarette marca "Black Stone" al gusto ciliegia, cherry, appunto.... I Black Stone Cherry sono quattro ragazzacci del sud-est degli Stati Uniti, più precisamente del Kentucky, e dopo i primi decisamente promettenti lavori se ne sono usciti lo scorso 31 maggio con questo terzo album.
Si dice che per un artista o una band il terzo album sia in qualche modo la prova del nove; dopo il debutto che in genere se ha successo viene considerato un po' la cosiddetta "Fortuna del principiante" e il secondo che facilmente gode del successo precedente, il terzo album è l'esame vero e proprio, e a mio modesto avviso il voto finale è decisamente alto per i Black Stone Cherry, che nello specifico rispondono ai nomi di Chris Robertson, cantante dalla voce eccezionale e chitarrista, Ben Wells, chitarrista ritmico mica da poco, Jon Lawhon, secondo me il migliore dei quattro con un basso tra le mani, e John Fred Young seduto dietro una miriade di tamburi, piatti e qualsiasi altra cosa possa essere picchiata con delle bacchette di legno. La band nasce nel 2001 nell'asciutta contea del Kentucky, asciutta non tanto per la scarsa pioggia ma più che altro per il proibizionismo ancora in vigore e per le scarse occasioni per far baldoria che lo stato americano offre. Così, non potendosi sbronzare appoggiati al bancone di un bar, i quattro buttano tutto il loro entusiasmo nella musica, aiutati da genitori e parenti tra cui musicisti jazz e persino un costruttore di chitarre. Le loro prime influenze musicali arrivano dagli stati vicini, come il Tennessee e il non confinante ma di certo più musicalmente influente Alabama, terra natìa del southern rock, e poi si sviluppa verso il grunge, l'hard rock, e persino l'heavy metal; il gruppo prende evidente ispirazione da alcune delle band che hanno caratterizzato la musica degli ultimi due decenni, come Foo Fighters, Nickelback, Alter Bridge e soprattutto Audioslave e Soundgarden del buon Chris Cornell. Chris che, sarà l'omonimia forse, risulta essere la più chiara influenza sin da subito, perchè la voce di Chris Robertson assomiglia moltissimo a quella del cantante di Seattle, sia come timbro che come interpretazione, e già questa è una premessa non da poco.
Ma veniamo all'album, dopo il debutto omonimo del 2006 e il successivo "Folklore and Superstition" del 2008, la band nel 2009 accompagna il "Dark Horse tour" dei Nickelback in qualità di gruppo spalla, terminata la loro prima effettiva esperienza "On the road" i quattro decidono di aspettare a tornare a casa, e lavorano al loro terzo album a Los Angeles. La città per eccellenza del connubio musica-trasgressione ha su di loro decisamente un bell'impatto, abbastanza per forgiare poco più di 40 minuti di adrenalina allo stato solido, vinile o plastica che sia.
Come dicevo poco fa l'album è composto da 15 tracce, nessuna che vada oltre i 4 minuti e pochissimi secondi, siete pronti a prendere la scossa? LP sul piatto, appoggiamo la puntina e via! Il disco si apre con "White trash millionaire", una partenza decisamente carica che fa subito affiorare alla mente Zakk Wylde, niente a che vedere col southern rock delle origini, questo è heavy senza troppi complimenti, con la voce di Chris sprezzante e rauca quanto basta. La chitarra resta su sonorità heavy anche nel secondo pezzo, "Killing floor", mentre la voce vira più verso l'evidente ispirazione a Soundgarden e Alter Bridge, notevole il lavoro alla batteria di Young e ottimo il piccolo assolo centrale di chitarra. La virata verso il grunge si completa con la successiva "In my blood", più soft delle prime due ma decisamente di alta qualità, qui davvero sembra di ascoltare una canzone dei Soundgarden, e il risultato non delude affatto.
Si riparte, altra intro cattiva e ad alto voltaggio, "Such a shame" è un altro pezzo tra l'hard rock e l'heavy che alza di nuovo decibel e bpm, che vede la gentile collaborazione della bella quanto brava Lzzy Hale e piazza la ciliegina sulla torta con una prestazione magistrale di Lawhon al basso. A seguire una meritata mezza pausa per evitare la tachicardia e per mostrare da subito la maturità artistica giusta per superare la prova del terzo album, "Won't let go" è un'ottima rock ballad, con la voce di Chris a farla da padrone e gli strumenti ad accompagnarla, ma, passati questi 3 minuti e poco più, i quattro tornano alla carica per "Blame it on the boom boom" con chitarra e voce potenti, la batteria che non manca un colpo e l'aggiunta di un testo decisamente allusivo e di cori nel ritornello che ricordano i Kiss. Se amate i Foo fighters la successiva "Like I roll" non può che essere di vostro gradimento, uno dei pezzi migliori e più maturi di tutto l'album....
Siamo al giro di boa, e a sentire "Can't you see" quasi dispiace di essere già a metà, se si potesse riassumere in una sola parola questo pezzo la parola non potrebbe che essere "potenza". Potenza che ci fa scivolare dritti dritti a "Let me see you shake", che riprende lo stile di "Blame it on the boom boom", sia per il sound che per il testo ancora più allusivo. In "Let me see you shake" i quattro ci regalano anche un grande assolo di chitarra decisamente gradito. Da qui in avanti è un'alternanza di potenza e riflessione, di maturità artistica e cattiveria, di Kentucky e di Los Angeles, e si comincia con "Stay", una ballata elettrica molto profonda che sale sicuramente sul podio dei migliori brani del disco; ma un'alternanza vi avevo promesso e un'alternanza avrete, se la permanenza in quella Los Angeles fatta di esagerazioni e musica spaccatimpani ha lasciato un segno questo è evidente in "Change", senza respiro, di quelle da mettere al massimo in macchina e urlare fino a strapparsi le corde vocali, anche qui grande chitarra ma davvero stratosferico il basso dell'onnipresente Jon Lawhon. Cambio! dimenticatevi cattiveria e migliaia di watt, "All I’m Dreamin Of", a mio modesto parere la miglior prova artistica della band fino ad ora, è un semi-country d'autore, che riporta i Black Stone Cherry nel loro caro sud-est, fatto di polvere, tempo per riflettere e cassette dei Lynyrd Skynyrd che ormai hanno piantato le radici negli stereo.... 3 minuti e mezzo, non di più, poi Ben Wells prende parola e dice: "Scusate, ma non eravamo a Los Angeles?"; detto, fatto! "Staring at the mirror" è potenza, chitarre al massimo e intermezzi dell'ottima voce di Chris a coronare il tutto. Gli ultimi due brani creano soluzione di continuità, e così, se si abbassa leggermente il ritmo con "Fade away", per l'atto finale intitolato "Die for you" ritorna forte il ricordo della chitarra di Zakk Wylde, si finisce come si è cominciato, potenza, vibrazioni heavy e una collaborazione dei quattro artisti davvero eccezionale.
Insomma, una bella prova di forza questo terzo album dei Black Stone Cherry, ma soprattutto un altro ottimo album di quest'anno.... Che sia la volta buona per una virata del mercato discografico verso la qualità e non solo sui soldi facili? Speriamo in bene, nel frattempo comunque abbiamo del gran bel materiale da ascoltare!....
ROCK ON!
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