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Rockwool: “Qui nel Sulcis si vive di fame”

Creato il 10 febbraio 2012 da Cassintegrati @cassintegrati

Se la crisi in cui è sprofondata l’Italia ha un simbolo, questo è il Sulcis, nel sudovest della Sardegna. Dove un terzo degli abitanti è disoccupato, le miniere e le fabbriche stanno tutte chiudendo e con la terra non si campa più: «Ormai dormiamo al freddo e siamo alla fame, letteralmente. Qui non abbiamo più nulla da perdere» Il Sulcis è una terra poverissima, dimenticata da Dio e dalla politica. Il Sulcis è una terra cava sotto, svuotata di ogni ricchezza, e quello che ne rimane oggi è solo la buccia. Eppure, nonostante tutto, qualcosa di buono resiste da queste parti. Leggi la notizia completa su L’Espresso

Torniamo a parlare degli operai Rockwool, che con una lotta intelligente ed estenuante sono riusciti a riconquistarsi il lavoro. Pochi chilometri più a nord c’è Buggerru, dove il 4 settembre del 1904 i minatori protestarono per le condizioni di lavoro disumane. Morirono in tre sotto i fucili dei soldati, ma l’eccidio portò al primo sciopero nazionale della storia d’Italia. Se poi ti avvicini alla costa, nel Sulcis, il mare è ancora bellissimo e ti ricordi d’un tratto di essere in Sardegna. Le rocce levigate, le spiagge intatte, e, ovunque, i tramonti da cartolina: «Quelli erano l’unico conforto dai finestrini del bus, nei giorni di attesa» racconta ancora Tore, che qui ha passato tutta la vita. Ma dura poco, come nei film, mentre stai nuotando guardi la costa e ci trovi buchi, scalette, condutture scavate nella roccia. Le miniere a Porto Flavia finivano a strapiombo sul mare, e sono lì per ricordarti che non ti sei liberato del vuoto che sta sotto la terra del Sulcis. Nell’ultima provincia italiana oltre un secolo fa cambiò la storia del lavoro, ed è qui che oggi dobbiamo guardare per capire come andranno le cose nel prossimo futuro.

«Cerchi i minatori?» chiede Tore Corriga, leader della protesta della Rockwool. «Eccoci qui». Sono infatti tutti ex minatori gli operai che producevano lana di roccia, un materiale isolante. «Hai presente lo zucchero filato nella ruota?», continua, «noi facevamo lo stesso ma col basalto». Tore ha 50 anni, tutti spesi ad Iglesias a lavorare duro. Lui e i suoi 60 colleghi avevano preso un premio di produzione dietro l’altro, ma nell’aprile 2009 un’email li informa che la Rockwool intende chiudere entro 70 giorni. Iniziano tre lunghi anni di lotta: «Ma chi li ha mai fatti tre anni di protesta così?» si chiede Tore. Prima 14 mesi in presidio ai cancelli, poi occupano il ponte sulla strada statale, e lo riempiono di striscioni e bandiere. Nell’estate 2010 danno vita al festival musicale ROCK(wool), per coinvolgere la cittadinanza, con l’inverno portano un bus abbandonato davanti la miniera e lo trasformano nella loro base.

La vita nel “Rockbus” (raccontata per mesi sull’Isola dei cassintegrati) diventa un secondo lavoro. Gli operai fanno i turni con Nunzio, Fabio, Matteo e Franco. Ignazio, che nonostante tutto indossa la maglietta Lacoste e sfoggia il “ciuffo brizzolato alla Richard Gere”, Maurizio che fa il caffè buono, il cane Whiskey che gironzola, una piccola tv per vedere le partite. L’ironia sempre, per scongiurare la disperazione: «Per la Uil abbiamo un solo messaggio: vaffanculo».

Sopra tutto c’è la lotta estenuante con la Regione per rientrare nei corsi di riqualificazione del “piano bonifiche”. Sopra tutti c’è Tore, che tiene viva la protesta e il fiato sul collo agli assessori. Gli altri lo chiamano “Il Cé”, perché è un rivoluzionario, e anche perché nel bus c’é sempre, scherza qualcuno. Solo un mese fa, l’11 dicembre, gli operai di mille presidi hanno occupato per 11 giorni la galleria della miniera, al buio, perché anche i giovani operai venissero riqualificati (guarda il video). «La nostra è una lotta di tutti, e se si vince si vince tutti» racconta Tore. Alla fine hanno vinto, quelli della Rockwool, e già a febbraio potrebbero tornare a lavorare. Il bus è ancora lì, tutto dipinto, vero e proprio museo della resistenza in mezzo ai veleni del Sulcis.´

di Michele Azzu | @micheleazzu | L‘Espresso
(10 febbraio 2012)

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