Dario Lastella ha pubblicato il suo resoconto.... e io, col suo consenso, lo ripropongo.
Ho avuto la fortuna di assistere dal vivo aThe Wall, riproposizione da parte diRoger Watersdello spettacolo che portò in tour con iPink Floydnel 1980 e 1981. Probabilmente qualcuno potrà pensare a uno spettacolo che fa leva sulla nostalgia, un “revival” un po’ triste sull’onda lunga delle decine di reunion a cui stiamo assistendo in questo periodo in cui i musicisti hanno bisogno di monetizzare al massimo i concerti per sbarcare il lunario. Nulla di tutto questo.
The Wall suona incredibilmente moderno e incisivo dopo più di 31 anni, anzi nel suo nuovo formato ipertecnologico ha assunto ancora più strati di significati in un mondo diventato molto più cattivo, violento e volgare rispetto a quello che ospitava Waters quando scrisse il suo opus magnum. Ad accompagnare il bassista britannico, una potentissima band, formata dai vocalist Robbie Wyckoff (solista), Jon Joyce, Mark Lennon, Michael Lennon e Kipp Lennon, i chitarristi Dave Kilminster (straordinario!) e Snowy White (quest’ultimo unico “superstite” oltre al compositore del tour dell’80), il bassista/chitarrista G.E.Smith, il batterista Graham Broad (già nei tour precedenti con Waters) e i tastieristi Jon Carin (che ha suonato anche in vari tour con i Pink Floyd senza Waters) ed Harry Waters (figlio di Roger). A questo bisogna aggiungere una messa in scena imponente come quella dei concerti originali dei Pink Floyd, ma aiutata da una tecnologia molto più avanzata che permette effetti e proiezioni impressionanti.
Date queste premesse è ovvio che The Wall stesso sia cambiato: l’album e il film pur nella loro magniloquenza erano originariamente lavori piuttosto introspettivi (e più di un critico li ha definiti non senza qualche ragione “autoindulgenti”), mentre il The Wall “30 anni dopo” è un lavoro molto più politico, sociale e universale. Il protagonista non è più solo Pink, la rockstar, con la sua storia di orfano di guerra, vessato da una scuola draconiana e asfissiato da una madre iperprotettiva, ma semplicemente è l’Uomo del XXI secolo. I personaggi che nel 1979 sembravano “reali” e funzionali solo alla biografia di un singolo, oggi sono metafore di qualcosa di più ampio e più profondo nella società: la “madre” è in realtà il Big Brother, che ci rassicura e ci protegge dai pericoli esterni, controllando ogni nostro movimento e orientando le nostre vite; la “scuola” è dappertutto, è l’informazione che ci indrottina e ci schiavizza (significativa l’animazione con i bombardieri che non sganciano più bombe, ma simboli religiosi, politici e… loghi di multinazionali!); lo spettro della guerra non è più legato alla Seconda Guerra Mondiale dove morì il padre di Pink (e il padre di Waters,Eric Fletcher), ma a tutti i conflitti nel mondo che creano vuoti nelle famiglie e “mattoni” nei “muri” personali di chi rimane. Particolarmente toccanti le immagini di caduti in tutte le guerre dell’ultimo secolo che riacquistano, un volto, un’identità, una dignità: ci sono foto di caduti nella Seconda Guerra Mondiale di tutte le nazionalità, nella Guerra Civile Spagnola, in Vietnam, in Iraq, in Afghanistan, in Iran o nella vecchia Unione Sovietica vittime dei totalitarismi, negli attentati terroristi e nelle recenti rivoluzioni nei Paesi arabi, tutti insieme per riaffermare quanto la guerra, tutte le guerre, sia una follia.
In questa nuova ottica universale assumono valori diversi anche i brani che parlano dei “conflitti sessuali”, dell’impossibilità di relazionarsi con il partner come “esseri umani”, della mercificazione del sesso (oggi, soprattutto nel nostro Paese, tema di scottante attualità); ma è soprattutto il tema cardine dell’isolamento e dell’alienazione a diventare universale. Trenta anni fa la metafora della “rockstar che diventa fascista” era sembrata a molti quanto meno forzata (pare cheDavid Gilmourdichiarò una volta informalmente che a lui sembrava “una montagna di cazzate”), ma oggi The Wall non parla più di Pink, la rockstar metà Waters e metàBarrett, parla di tutti noi, perché tutti noi subiamo i bombardamenti ideologici e pubblicitari, tutti noi siamo “rassicurati” dalla “Mother universale” che ci spia… Quindi tutti noi siamo in qualche modo Pink e tutti noi veniamo affascinati e ci sentiamo più sicuri quando arriva “l’Uomo forte” che “manda a casa i negri” ed “elimina i drogati”.
La messa in scena degli “Hammers” è realmente impressionante, alcuni lo chiamano il “paradosso Waters”, ovvero rappresentare un’opera antifascista con una tale suggestione fascista da ipnotizzare ed esaltare il pubblico (e stavolta il buon vecchio Roger si lascia andare anche a raffiche di mitragliatrice, ricordando sinistramente una versione nazista di Sid Vicious nella sua My Way)…
Il finale è ovviamente il crollo spettacolare del muro, l’immagine femminile dellaVittoriadell’Uomo sulla sua parte più oscura, un happy ending molto più evidente che nell’obliquo finale del disco e che lascia lo spettatore a bocca aperta e con la sensazione di aver assistito alla più grande opera rock mai messa in scena.
Roger Waters oggi è un uomo diverso da 30 anni fa (”quando scrissi The Wall non ero uomo felice, oggi sì!”): uno dei grandi mastermind del rock, finalmente ha superato il suo muro e così è riuscito ad andare oltre i limiti della sua opera che solo adesso appare realmente compiuta; ma soprattutto è diventato un artista che riesce a “godere” della sua arte, che riesce a condividerla con il pubblico e non è più in guerra con esso, che riesce ad andare oltre la propria dimensione intimista attraverso un messaggio finalmente davvero universale.
Grazie Roger, grazie Maestro!