In pochi giorni ho guardato scorrere tutta l’Italia sotto i miei piedi.
Sono andata a passare il compleanno con le sole persone che volevo accanto.
Lontana da Brescia, dalla neve, dalla politica, dal negozio, dagli allestimenti di Natale, dalla pioggia che entra dalle travi della mansarda.
Finestrini di macchine, aerei, autobus, aliscafi e treni.
Paesaggi e passaggi in cui mi sono stupidamente trovata a pensare a cosa io abbia capito quest’anno.
Niente che mi renderà ricca o saggia a breve, s’intende.
Però ho capito che per minimizzare un difetto bisogna sottolinearlo. Ora i vestiti senza spalline sono la cosa che mi sta meglio in assoluto.
Ho capito che è l’interesse che muove il tutto, famiglia compresa, frequentemente.
Che l’indipendenza è più spesso schiavitù che libertà.
Che la coerenza a volte paga.
Che però il premio per questa coerenza mi sa che non lo voglio ritirare.
Che il “nomen omen” spesso è una cazzata.
Che siccome il “nomen omen” spesso è una cazzata, cercherò sull’elenco telefonico uno che di cognome faccia “Esimiatestadicazzo” e gli chiederò di sposarmi.
Che se la suocera rivela in confidenza a vostra madre che “a volte le fate così tenerezza che vi abbraccerebbe”, è solo una scusa per quando vi metterà le mani al collo. Per strozzarvi.
Che se si ha paura di perdere una persona, se si ha timore di non essere abbastanza per lei, se si ama qualcuno, passare giorni a insultare la suddetta persona potrebbe risultare una strategia infruttuosa.
Ho capito che odio i letterati.
Che se sei una qualunque per scrivere su una rivista devi fare ricerche per settimane, costruire la vita di alcune donne importanti su figure retoriche diverse, inventarti un racconto per descrivere un tappeto, consigliare una bevanda da sorseggiare con un libro.
Che se hai lo stesso cognome del direttore puoi scrivere di quanto sia figo Julio Cesar (maddai, sembra il cugino idiota di Big Jim…) e di quanta paura ti abbia fatto Tyson quando l’hai incontrato. E ti elencano pure nei collaboratori (la qualunque no, ovviamente).
Che in due giorni ho detto più palle di quante ne abbia costruite con il polistirolo.
Che in due giorni posso costruire circa cinquecento palle di polistirolo.
Che se hai la febbre da una settimana la lezione di pump è preferibile saltarla.
Che se, accompagnandoti all’aeroporto, la tua migliore amica ti chiede chi tra i tuoi due affetti tu abbia più voglia di vedere e tu non pensi a nessuno dei due nomi, ma a uno pseudonimo, può essere sbagliato.
Ma può essere anche tremendamente giusto.
Che a volte non conta né il viaggio né la meta, ma la deviazione.
Che se leggi Ammaniti poi continui a dire “fottuto” per giorni.
Che è inutile che io continui a cercare casa, tanto ogni volta che vado a un rogito svengo.
Che mi fanno ridere le papere quando si immergono e restano con il culo per aria.
Che non m’interessa più piacere a tutti. Voglio essere detestata, o fare impazzire.
Che si può molto apprezzare una musica che non avresti mai ascoltato, se il momento, il luogo, il profumo e i capelli sono appropriati.
Che vivo da sola.
Che non ho idea di cosa stia facendo.
Lui, sì. Ma anche io.
Ah, il congiuntivo.
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