
A ben pensarci, questa è la terza estate che "passo" con Rohmer: ho conosciuto quella arsa e disperata de Il segno del leone, in una Parigi claustrofobica e quella irrequieta e un po' ascetica de Il raggio verde. Non credo si possa addebitare solo al progressivo addomesticamento a questo cinema e alle sue immagini di studiata semplicità se io, per me, scelgo questa estate, e questo come il mio racconto e il protagonista come vicino a me in modo quasi imbarazzante.
(Ma tranquillo: parlerò del film, non di me.)
Gaspard (il bravissimo ed elegante Melvil Poupaud) vive "certo dell'esistenza di tutto il resto attorno a sé, ma non della sua". Inconsapevole del suo fascino o dell'uso che potrebbe farne, se solo volesse, si fa spadroneggiare dal caso, dalle coincidenze, dai capricci di due donne, e dalla tenerezza e dall'affetto di una terza. Non ricordo molti film in cui un personaggio maschile sia così centrale, pur senza essere necessariamente sezionato o invaso dal dubbio. La camera di Rohmer, così scabra senza filtri, coi colori naturali e la luce che viene da dove deve venire, si muove come sul set di un documentario, restituendoci un ragazzo nella sua fragilità affettiva.

Gaspard è tenero nei confronti dell'amicizia di Margot (un'adorabile Amanda Langlet), lusingato dalla sua capacità di donarsi tutta, quanto colpito dall'energia di chiedere tutto tutto di Solene (la camaleontica Gwenaëlle Simon) e sedotto dall'incapacità di dare e di volere - in definitiva: di essere - di Lena (Aurelia Nolin, un po' convenzionale, ma la parte non l'aiuta).
Rohmer sceglie tre donne per descrivere un uomo, come atto di sadismo più che per amore. Lo mette nella condizione che Margot sintetizza con un sorriso: Gaspard è un mendicante che una mattina si scopre ricco. Un giovane senza alcuna dimestichezza nello spendere la sua vita, il breve tempo che l'estate concede, e che lui non ricorderà mai come un'estate d'amore.