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Roma, bagatelle di mafia

Creato il 09 novembre 2015 da Albertocapece

images (1)La società liquida o meglio liquefatta dal pensiero unico ha bisogno di concetti liquidi: se questi fossero solidi, chiari e distinti l’acqua sociale finirebbe per aggregarsi attorno ad essi, per prenderne la forma e smetterebbe di comportarsi come un gas ignobile le cui molecole agiscono guidate dall’emotività basale invece che dalle forze fondamentali. Già, sembra un pensiero molto astratto, ma in realtà lo si può toccare con mano nelle vicende romane: il verminaio che si è scoperto è mafia o non è mafia?

Qualunque discussione su questo tema dovrebbe partire o aggregarsi a una definizione di mafia, la quale però non viene richiesta a coloro che minimizzano per poter continuare o che pensano che il buon nome di una città si difenda nascondendo e tenendosi addosso i panni sporchi invece di metterli in lavatrice. E’ ovvio che si tratta di mafia, qualsiasi dizionario italiano o delle lingue in cui la parola è entrata lo conferma poiché si riferisce a un “gruppo di persone che usano illecitamente il potere anche a danno di qualcuno per conseguire i loro interessi particolari” o ancor più estesamente come il dizionario Garzanti  a “un gruppo di persone che agisce, anche in modo illecito, allo scopo di ottenere determinati vantaggi o di difendere gli interessi della propria categoria”.

In quest’ultima definizione non c’è nemmeno bisogno di una violazione della legalità formale per poter parlare di mafia: l’illiceità nasce non tanto dalle pratiche violente o dal ricatto criminale, ma dalla segretezza o dai modi con cui viene aggirato il dettato costituzionale sull’eguaglianza dei cittadini, la libertà d’impresa, il bene comune nel suo senso più generale. In questo senso sono mafia anche la cosche a del Mose o dell’Expo. Anzi la criminalità organizzata si distingue da quella comune proprio perché la legalità non sempre viene violata in modo diretto, ma attraverso un rapporto indebito con le varie forme in cui s’incarna il potere pubblico.

Evidentemente qualcuno pensa che non ci sia mafia se non ci sono uomini con la coppola e il fucile a canne mozze che vanno a fare le ammazzatine. E magari dicono che in fondo nel caso di Roma, non si tratta di affari giganteschi come se le stimmate visibili della mafiosità  che adottano per negare la realtà attraverso le apparenze, non appartenessero a una criminalità contadina dove la lupara tuonava anche per una pecora.  E sapete, il concetto di mafia degli innocentisti della politica è davvero strano perché i fenomeni mafiosi dovrebbero essere ben conosciuti nel nostro Paese tanto che addirittura la relazione finale della Commissione d’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1875/76 – parliamo di un secolo e mezzo fa – faceva a pezzi i concetti che ancora oggi fanno sentire i loro sinistri spifferi. Innazitutto riconosceva che si tratta di “una forma criminosa non specialissima della Sicilia”, cosa che pare non sia ancora entrata nel sistema nervoso primordiale di Salvini e compagnia e poi non si tratta di una vera e propria forma di governo ombra , guidata dai capi delle cosche, “ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male.” In sostanza i due autori della relazione individuano l’elemento specifico della mafia siciliana, non in ciò che fa o nella sua struttura, ma nell’omertà di cui essa può godere in quanto sistema di potere instauratosi nell’interregno fra il tramonto dei poteri feudali iniziato già in era napoleonica e lo stato unitario a causa della irresponsabile sottovalutazione della questione sociale da parte dal ceto politico governativo. Sia Sonnino che Franchetti , tanto per la cronaca, erano tra i conservatori più rigidi del tempo, cosa che fa ancora più risaltare l’abissale differenza con gli acefali contemporanei.

Davvero ci possiamo stupire se la relazione della commissione prefettizia insediata per far luce sul sistema corruttivo e sulle vicende di Buzzi, Carminati e politica cantante, sia stata cronometricamente desecretata solo dopo la cacciata di Marino? E se essa dice apertis verbis che non solo il sindaco aveva “sottovalutato la corruzione” ma  in qualche caso aveva persino lodato la “severa legalità” di qualcuno che oggi è in cella. E che con il trascorrere del tempo il chirurgo si è trasformato da potenziale nemico del malaffare in comodo e innocuo paravento: “se resta sindaco altri tre anni e mezzo col mio amico capogruppo ce mangiamo Roma”. E già, questo documento e la sua gestione aprono un vaso di Pandora che va ben oltre Marino, anche se probabilmente le raffinate teste d’uovo sodo non se ne sono accorte.

Ma insomma il dibattito pubblico su mafia capitale, così come su tutti gli altri fenomeni di criminalità organizzata che scoppiano come mortaretti a Capodanno, sembra partire da posizioni ancora più arretrate rispetto a quelle del 1875:  chissà che guadagni se la regressione fosse quotata in borsa.


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