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Roma Film Festival ’13: il giapponese SEVENTH CODE è il mio preferito del concorso

Creato il 13 novembre 2013 da Luigilocatelli

Seventh Code, di Kiyoshi Kurosawa. Con Zhao Youliang, Ni Hongjie, Yin Fang. Giapppone. Concorso.SEBUNSU KODO (4)
Dura un’ora sola, sessanta minuti esatti, ed è un film piccolo e perfetto. Siamo a Vladivostok, Russia estrema e asiatica, luogo di anime vaganti e loschi traffici. Ci arriva una ragazza giapponese per rintracciare l’uomo per cui ha perso la testa, ma che se ne frega di lei. Sembra Adele H., diventa un thriller e una spy story con parecchi colpi di scena. Un film sull’inganno e l’ambiguità. Voto 8 e mezzoSEBUNSU KODO (5)
All’anteprima stampa di Seventh Code stamattina sono andato quasi per caso, perché il film durava solo un’ora, il che mi avrebbe consentito di uscire verso le 10, giusto in tempo per reinfilarmi alle 10,15 in un’altra sala a vedermi il Capolavoro Annunciato di questo RFF, l’Opus Magnum, L’Evento atteso da ogni cinefilo, insomma Hard To Be a God del russo Aleksej Jurevic German, insignito (post mortem) del premio alla carriera. Invece ho finito per adorare Seventh Code – in ogni festival c’è un coup de coeur, per dirla con trombonismo francese, e mi sa che per me stavolta è questo. Di Kiyoshi Kurosawa avevo visto l’agosto scorso al festival di Locarno Real, un fantastico-psy parecchio interessante, con derive visionarie notevoli e qualche parentela con Inception (e con Freud e Jung). Settimo codice è un film più piccolo, immagino anche realizzato con pochi mezzi, niente Cgi, pochi attori, eppure è un miracolo di perfezione, qualcosa di assoluto che ti abbaglia. Anche stavolta Kurosawa (nessuna parentela con Akira) circumnaviga il cinema di genere per poi raccontare altro, in primis i suoi fantasmi d’autore, o se preferite i suoi demoni. Siamo a Vladivostok, punta estrema a Est dell’immensa Russia, terminale della mitologica Transiberiana. Un luogo ad alta valenza simbolica, al centro di correnti etnoculturali molteplici, punto di incrocio e gorgo tra Russia, quel che rimane delle culture prime della Siberia, Cina, Giappone, Corea. Posto di transito, perfetto per storie e trame, per loschi traffici, per gente che fugge e vaga in cerca di sé e di una meta. Vladivostok come, a loro tempo, Tangeri, o Salonicco nido di spie, o la Shanghai nazionalista e premaoista. Uno scenario che è già molta parte del fascino del film, con il suo squallore post sovietico, l’ipermodernità arrembante eppure incerta e già cadente, già scrostata e corrosa, con un’aria da vecchia Europa che cerca invano di resistere all’onda asiatica. Lì arriva una ragazzina giapponese di nome Akiko, inseguendo Matsunaga, il ragazzo per cui ha perso la testa. Lo trova – lui è lì per affari -, lo abborda, si fa invitare a cena, ma Matsunaga la disilluderà dicendole che per lui quella volta si è trattato solo di una serata divertente, insomma una scopata e via, niente di serio, niente progetti. Però Akiko non demorde, ha la corazza dura della stalker. Rimasta senza soldi, si fa assumere da un connazionale che ha aperto lì un ristorante senza troppa fortuna insieme alla sua bellissima e ambiziosa ragazza cinese. Con l’obiettivo, ovvio, di tener d’occhio l’amato. Quella che sembra una storia d’amou fou alla Adele H. svolterà man mano in thriller e spy-story, con tanto di traffico illegale di testate nucleari (post sovietiche, ovvio). Ci saranno parecchi colpi di scena, e un finale che non ti aspetti proprio. Kurosawa è bravissimo nell’ingannarci, depistarci, portarci in un altrove-parcheggio in attesa di ricondurci al centro del plot. Dosando alla perfezione il côté action e spy con quello psy, senza rinunciare a una grazia tutta di segno giapponese. Ma l’idea vincente è Vladivistok, uno di quei posti che sembrano fatti per il cinema, e ci si chiede, vedendo Seventh Code, perché il cinema l’abbia usata finora così poco.

 


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