L’attore di Tir Branko Savrsan (a sinistra con il Marc’Aurelio d’oro) e il regista Alberto Fasulo
Mai letto sul Corriere della sera un Paolo Mereghetti più indignado di quello di oggi – domenica 17 novembre -, e la sua indignazione è tutta per i premi del Roma Film Festival edizione numero otto. “Perché la giuria presieduta da James Gray abbia scelto questo film (Tir di Alberto Fasulo, ndr) per il massimo riconoscimento resterà un mistero. Personalmente preferisco astenermi e pensare a un transitorio momento di follia collettiva”, scrive il Mereghetti, con l’articolo mi raccomando, come ormai lo si chiama assimilandolo al tomo enciclopedico che ha fatto di lui un brand. E qualche riga prima, commentando il premio come migliore attrice a Scarlett Johansson per Her di Spike Jonze, era stato altrettanto tranchant: “Un primato da Guinness: per la prima volta un festival premia un’attrice che ha prestato solo la voce al film”. Ora, parto dal Mereghetti-pensiero per aggiungere qualche mia considerazione sul palmarès dell’appena concluso RFF8. Di Tir non posso dire nulla, essendo partito giovedì a mezzogiorno prima della fine del festival, e prima che lo proiettassero, d’altra parte avevo deciso di non fermarmi – in questa mia prima volta all’Auditorium – per tutta la durata ma solo qualche giorno, giusto per saggiarne l’atmosfera e conoscere il territorio. Mi colpisce però in Mereghetti la durezza con cui parla oggi di un documentario fictionalizzato come Tir, mentre non ricordo altrettanta indignazione, anzi ricordo una grande benevolenza verso un altro doc, quello che lo scorso agosto ha vinto il Leone d’oro a Venezia, Sacro GRA. Salutato peraltro da molta parte della critica istituzionale italiana come un’opera di massimo rispetto (nel sondaggio effettuato tra i critici più noti presenti a Venezia risultò al secondo posto, subito dopo Philomena, e non ho parole: per il primo e il secondo posto). In my opinion, quello sì che è stato un esempio clamoroso di follia collettiva. Sacro GRA è un film non riuscito, sovrastimato, sgangherato e confuso nella struttura e il verdetto veneziano pronunciato dalla giuria presieduta da Bernardo Bertolucci è stato una svista colossale, se non un vero e proprio scandalo, un errore che la mostra del Lido sconterà durissimamente nei prossimi anni. Eppure pochi hanno avuto l’ardire di dissentire da quel palmarès dissennato (credo di essere stato con questo blog una delle scarse voci dissonanti in un coro di laudatores e plaudatores, insieme a qualche giornalista straniero). Dunque, ci si straccia le vesti a Roma, ma a Venezia si applaude, e io francamente faccio fatica a capire. Riguardo al premio assegnato a Roma alla solo-parlante Scarlett Johansson, non lo trovo così scandaloso, in Her è così brava da fare del suo virtuale personaggio una presenza forte e ineludibile. Certo, la mossa della giuria è spiazzante e con un che di provocazione dadaista, ma non così fuori di testa. Quanto al fatto che – come ricorda Mereghetti – il pubblico italiano neanche potrà apprezzare la performance di Scarlett per via del doppiaggio, ecco una bella occasione per fare tutti insieme un po’ di casino e ingaggiare una piccola battaglia perché i film, almeno certi film che non aspirano a essere dei blockbuster, escano in versione originale sottotitolata o anche in originale. Piuttosto c’è da chiedersi come mai Her, di sicuro il film più gradito da stampa e pubblico giovane, non abbia vinto il Marc’Aurelio d’oro. Forse non è stata cosa granché furba far giudicare Spike Jonze e il suo film da una giuria presieduta da un regista suo coetaneo come James Gray, americano come lui, autore come lui di un cinema indie di medio-largo raggio. Si tratta di due competitor di pari livello che si muovono nello stesso segmento di mercato, è quantomeno discutibile e azzardato che uno venga messo nella condizione di giudicare il lavoro dell’altro. Niente da dire sul premio come miglior attore a Matthew McConaughey che ha perso decine di chili e tutti i muscoli che aveva esibito in Magic Mike per interpretare uno spettrale malato di Aids in Dallas Buyers Club, film che ha molto prevedibilmente ottenuto il premio del pubblico, ma che – al di là dell’eroica perfomance di McConaughey – resta più furbo e ruffiano che bello, e alquanto ambiguo. Il resto del palmarès è ottimo. Sono felice che siano stati dati ben due premi – per la regia e per il contributo tecnico – a quello che per me è il miglior film del concorso (fa fede la mia instant-recensione), Sebunsu Kodo (Seventh Code), del giapponese Kiyoshi Kurosawa, stranamente (stranamente?) snobbato da molto stampa italiana. Il romeno Quod Erat Demonstrandum si porta a casa il premio speciale della giuria: va bene così, trattasi di un prodotto degnissimo e assai rispettabile, ma non un capolavoro, il Marc’Aurelio d’oro da molti invocato gli starebbe stato piuttosto largo. Il cinema made in Romania comunque si conferma ancora una volta un’implacabile macchina da premi festivalieri. Bene anche il premio collettivo assegnato agli attori dell’iraniano Gass (Acrid), tra i migliori visti in concorso, che molto deve al magistero dell’Asghar Farhadi di Una separazione. Il mio preferito dopo Seventh Code e Her (vedi la mia classifica), il turco Ben o değilim I Am Not Him, sorta di delirio lynchiano-polanskiano tra Bosforo e Smirne, si porta via meritatamente il riconoscimento per la migliore sceneggiatura, ma io gli avrei anche dato qualcosa di più. Il premio Taodue Camera d’oro per la migliore opera prima/seconda va all’americano Out of the Furnace, di sicuro interessante, potente, vigoroso, ma troppo farcito e troppo programmaticamente, manieristicamente, desolato e crudo.