Roma, 12 febbraio 2016 – Nell’ultimo decennio il fenomeno dei bambini-soldato ha conosciuto uno sviluppo impressionante: stime dell’UNICEF parlano di 300.000 minori in armi nel mondo.
di Mario Renna – Nell’ultimo decennio il fenomeno dei bambini-soldato ha seguito di pari passo la proliferazione legata ai bassi costi delle armi da fuoco, divenute oltre tutto sempre più leggere e facili da adoperare (per fare un esempio, dal ’47 a oggi sono stati venduti circa 60 milioni di Kalashnikov).
L’UNICEF stima che nelle zone calde del mondo – in modo particolare in Africa ma pure in Asia e America del Sud – siano 300.000 i giovani con meno di 16 anni (a volte si tratta di bimbi di appena 8 anni) ad aver partecipato attivamente ad un conflitto con diversi ruoli: portatori di viveri e di acqua, cucinieri, spie, porta-ordini ma anche guerrieri veri e propri, costretti ad atti inimmaginabili per la loro età.
In non pochi casi, addirittura le forze armate regolari di diverse nazioni hanno fatto imbracciare un’arma a un bambino destinandolo alla prima linea, con la formazione di unità costituite da soli minori.
Tutto questo senza contare gli scandali delle bambine (e i bambini) in stato di schiavitù sessuale che accompagnano le milizie in combattimento, e il recente verificarsi di attacchi suicidi condotti da minorenni.
Arruolati con la violenza oppure ceduti dalle famiglie alle milizie armate, i minori sono facilmente manipolabili, obbediscono di più (anche perché sottoposti ad un addestramento severissimo se non brutale, cui si aggiunge la somministrazione di droghe), costano meno e hanno una tendenza minore alla fuga rispetto agli adulti.
I danni che ricevono sono irreversibili nella maggioranza dei casi. Cresciuti nella consuetudine alla violenza, talvolta gratuita e truce, la maggior parte dei bambini-soldato non intravede un modo diverso di vivere.
Le testimonianze raccolte dalle organizzazioni che si occupano di questa piaga sono a dir poco agghiaccianti, ad esempio quelle pubblicate dal quotidiano britannico Telegraph in occasione di una delle giornate dedicate dall’ONU alla lotta al fenomeno dei bambini-soldato (ogni 12 febbraio dal 2002 in poi).
Storie di adolescenti che vengono picchiati selvaggiamente per essere poi indotti a uccidere – in gruppo – dei coetanei a colpi di coltello e di machete, in una sorta di rito di iniziazione per entrare a far parte della milizia.
Molti finiscono per vedere nel proprio gruppo armato una sorta di surrogato della famiglia dalla quale sono stati staccati con la forza, se non l’unico rifugio in grado di garantire loro la sopravvivenza, il che rende lunghissimo e difficile qualsiasi percorso di recupero, specie in contesti fortemente degradati da guerre sanguinose in cui la pulizia etnica e il genocidio sono stati all’ordine del giorno.
Nei conflitti che durano da generazioni, molti bambini sono addirittura da considerarsi opzionati per la guerra, esperienza alla quale sono stati “educati” e alla quale si abbandonano in nome di un sentimento cieco di vendetta e di giustizia.
Carnefici e vittime al tempo stesso, dunque. I bambini-soldato rappresentano un gruppo trasversale delle drammatiche statistiche dell’UNICEF che riguardano l’impatto dei conflitti sull’infanzia, frutto avvelenato del coinvolgimento sempre più esteso della popolazione civile nelle guerre, oggi diventata in numerosi frangenti (quelli delle guerre intra-statali) un obiettivo deliberato:
- 2 milioni di bambini morti;
- 4-5 milioni di invalidi;
- 12 milioni di sfollati;
- oltre un milione di orfani o di minori separati dalle famiglie;
- oltre 10 milioni di bimbi traumatizzati psicologicamente.
Oltre all’UNICEF sono numerose le organizzazioni e le associazioni scese in campo per contrastare il fenomeno dei bambini-soldato sul piano dell’advocacy, della prevenzione e del recupero dei minori coinvolti.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha emanato nel 2005 un’apposita risoluzione, e il Palazzo di Vetro ha lanciato – in rete con altre organizzazioni – la campagna Children, not Soldiers attraverso l’Ufficio del Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell’ONU per i minori nei conflitti armati, Leila Zerrougui.
Una delle priorità è costituita dall’intensificare gli sforzi per accompagnare entro quest’anno gli otto Stati che ancora reclutano minori (Afghanistan, Ciad, Sud Sudan, Myanmar, Somalia, Repubblica Democratica del Congo, Sudan e Yemen) nel processo di smobilitazione e reinserimento alla vita civile dei bambini reclutati e nell’adozione di misure di prevenzione del fenomeno. In concreto la campagna fornisce non solo consulenza tecnica ma pure risorse per la realizzazione di tali misure.
Anche la Nato, dopo il summit di Chicago nel 2012, ha elaborato un documento intitolato Military Guidelines on Children and Armed Conflict, che contiene indicazioni su procedure e comportamenti da adottare quando si riscontrano violazioni dei diritti dei minori.
Il documento è frutto anche delle lezioni apprese dalla missione International Security and Assistance Force in Afghanistan (ISAF). Proprio in Afghanistan, nell’ambito della missione Resolute Support, la Nato ha previsto la figura del Child Protection Advisor con l’obiettivo di incoraggiare i valori della protezione dei minori presso le forze di sicurezza afghane.
Ma da un punto di vista operativo, per un soldato regolare rimane aperta la questione di come eventualmente rispondere ad una minaccia immediata sul campo da parte di bambini-soldato addestrati a uccidere. Oltre ai risvolti etici e giuridici ci sono anche quelli psicologici: un carnefice difficilmente lo si immagina con il volto di un ragazzino.
Mario Renna