Roman Brandstaetter

Da Paolo Statuti

Roman Brandstaetter

Il Crocifisso di Innocenzo da Palermo (San Damiano – Assisi)

La penna al servizio della religione e dell’uomo

   Il 28 settembre 1987 moriva a Poznań all’età di 81 anni Roman Brandstaetter. Ecco il telegramma inviato da Giovanni Paolo II all’arcivescovo Jerzy Stroba, allora arcivescovo metropolita di Poznań.

   “Il Signore dei secoli e dell’eternità ha chiamato a sé Roman Brandstaetter. In tutta la sua lunga e fruttuosa vita egli si è avvicinato a Cristo. E’ cresciuto nel cerchio biblico, al quale ha concorso per nascita e dalla nascita. Questo cerchio lo ha condotto a Gesù di Nazareth. Dal momento del suo incontro con Gesù di Nazareth tutta la sua vita e creazione si sono concentrate attorno alla persona del Dio Incarnato, atteso dal popolo di Mosè, hanno trovato espressione nel cantico – “Il cantico del mio Cristo”, gli “Inni mariani”, “Il libro delle orazioni, la versione poetica della Sacra Scrittura, i quattro poemi biblici.

   Il cantico nella Bibbia è espressione di speranza. L’attività letteraria di Roman Brandstaetter è stata interamente espressione della speranza biblica e divina. Di quella forza spirituale che distingue i veri cristiani, della forza che si apre la via e annienta il fardello della natura macchiata dal peccato, per elevare se stesso e gli altri verso Dio mediante la potenza dell’ispirazione e della grazia. Roman Brandstaetter ha così innalzato non solo se stesso, ha innalzato tutti noi, suoi lettori.

   Per tutta la vita è stato un pellegrino e si è cercato un posto nella Chiesa, nella letteratura, nell’ambiente, nel mondo. La conoscenza della Tradizione, della patria di Cristo, e soprattutto la  consapevole appartenenza al popolo eletto gli hanno consentito di creare basandosi sulle realtà dell’Incarnazione di Dio.

   Che Colui nel quale con tutto il cuore ha confidato e al quale ha cantato un cantico personale, e con tutta la Chiesa pellegrina ha ripetuto “Kyrie elejson”, lo conduca là dove si odono soltanto i gioiosi “Alleluja” di coloro che assieme a Cristo passano dalla morte alla vita”.

     Giovanni Paolo II, pontefice

   Nel necrologio apparso sul quotidiano “Słowo Powszechne” due giorni dopo la morte leggiamo: “Illustre Scrittore, Grande Artista della letteratura cattolica, Poeta, Drammaturgo, Traduttore, per più di mezzo secolo ha esercitato un’enorme influenza su intere generazioni di lettori polacchi. La sua creazione è parte integrante della cultura europea, per il suo messaggio universalistico generato dallo spirito cristiano. Fonte vivificante dell’ispirazione creatrice dell’Autore di “Gesù di Nazareth” e fonte della sua ardente fede fu la diletta Bibbia…E’ scomparso un grande scrittore. Ci restano i suoi libri e l’affascinante forza espressiva racchiusa in essi”.

   Il 4 ottobre il settimanale cattolico di Cracovia “Tygodnik Powszechny” pubblicava un articolo commemorativo, in cui si leggeva tra l’altro: “…Roman Brandstaetter, poeta di grandi emozioni metafisiche, illustre drammaturgo e prosatore, ha fatto del conflitto tra bene e male, amore e odio, fedeltà e tradimento, verità e menzogna – il tema principale delle sue opere. Creò nel silenzio e nella solitudine, estraneo alle mode letterarie e alle chiassose congreghe, perfezionando la sua arte interamente rivolta alla condizione umana. Vide il destino dell’uomo nelle categorie della teologia cristiana, aperta alla sofferenza e al dolore, ma anche alla speranza del riscatto e alla redenzione di ciò che è imperfetto, fugace…Nei suoi drammi si riallacciò alla tradizione del teatro religioso, alle rappresentazioni sacre del medioevo, nonché ai romantici e modernisti polacchi: Mickiewicz e Krasiński, Wyspiański e Żeromski, riproponendo i loro grandi problemi morali e nazionali…Ha fornito una continua testimonianza di fede nell’uomo: nelle sue possibilità di ampliare le sfere del bene e dell’amore, di trasformare le tenebre in luce…La morte di Roman Brandstaetter impoverisce una tradizione molto importante che nella letteratura polacca risale al romanticismo, la tradizione della letteratura intesa come coscienza della nazione, che fa appello anzitutto alla sensibilità morale del lettore…”

   Roman Brandstaetter nacque il 3 gennaio 1906 a Tarnów. Nel 1931 si laureò in filosofia all’Università Jaghellonica di Cracovia. Debuttò come poeta nel 1928 con una raccolta dal titolo “Jarzma” (I gioghi). Scrisse più di 20 drammi, tra i quali ricordiamo: “Powrót syna marnotrawnego” (Il  ritorno del figliol prodigo), che ha come protagonista Rembrandt e fu scritto a Gerusalemme negli anni di guerra, “Król i aktor” (Il Re e l’attore, 1951), „Odys płaczący” (Ulisse piangente, 1956), „Medea” (1959). Tra le opere poetiche spiccano su  tutte “Pieśń o moim Chrystusie” (Il canto del mio Cristo, 1960) e “Hymny Maryjne” (Inni mariani, 1963). Le sue opere in prosa più conosciute sono: “Kroniki Asyżu” (Cronache di Assisi, 1947), „Krąg biblijny” (Il cerchio biblico, 1975) e soprattutto “Jezus z Nazarethu” (Gesù di Nazareth, 1967-1973), pubblicato in Italia nel 1992 dalla casa editrice Piemme (traduz. B.Verdiani). Quest’ultima opera è una grande epopea del Nuovo Testamento suddivisa in quattro parti, è un possente romanzo considerato da molti un caposaldo  della letteratura polacca del dopoguerra, sia dal punto di vista storico che artistico. Essa è nata da una profonda conoscenza della tradizione giudaica e stupisce per l’ampiezza delle fonti e l’accuratezza nel descrivere i fatti della vita di Cristo sulla terra. E’ la visione di un uomo che concepisce la fede come continua ricerca – spesso attraverso la sofferenza – delle verità assolute.

   Nella creazione di Roman Brandstaetter si legano tre indirizzi: religioso, patriottico e nazionale. Il suo bellissimo poema “Bibbia, patria mia…” ha detto sulla terra polacca più di molti volumi di prosa. Nella sfera dei suoi interessi emergevano sempre in primo piano la religione e l’uomo, e in particolare i pericoli che porta con sé il mondo contemporaneo, la civiltà contemporanea. Percepiva la presenza del caos e del vuoto nella vita dell’uomo.

   Alla tematica biblica Brandstaetter tornava ripetutamente sotto la spinta di nuove meditazioni ed esperienze personali. Per lui la Bibbia è il timone e lo specchio della vita, in cui occorre cercare la risposta alle domande spesso così tormentose, scaturenti dalla nostra intricata realtà.

   Il giornalista Marian Brzeziński scrive: “…Tra i miei libri c’è anche il “Cerchio biblico” di Brandstaetter. Quando si scorrono le sue pagine, si avverte subito il desiderio di aprire la Bibbia. Quando sarai vecchio – leggo nel testamento del nonno di Brandstaetter lasciato al nipote – ti convincerai che tutti i libri letti nella tua vita non sono altro che un insufficiente commento a questo unico Libro…Guardo la mia enorme biblioteca, penetro con la mente nel suo contenuto e – riconosco che il nonno di Brandstaetter aveva ragione”.

   Tutto ciò che è uscito dalla sua penna: la sua prosa, le poesie, i drammi, i saggi, le bellissime traduzioni di testi del Vecchio e Nuovo Testamento, è caratterizzato dalla sete di Assoluto. Riteneva che uno scrittore debba servire anzitutto la Verità, debba presentare l’intera gamma delle esperienze umane, con le loro parentesi di grazia e le cadute. Per questo l’azione di molti drammi di Brandstaetter si svolge in un certo senso nell’intimo dei protagonisti. Le situazioni sono in funzione dei personaggi che cominciano ad esternare i propri sentimenti, sentimenti che sono strettamente legati alla fede, intesa come grazia che bisogna sviluppare, arricchire, rafforzare attraverso le esperienze emotive e intellettuali. Ecco cosa egli scrive in “Księga modlitw” (Libro di preghiere, 1985):

   …Dobbiamo diventare artisti della fede

   E incessantemente percepire questa fede,

   E sempre di nuovo percepirne la profondità,

     Come percepiamo una nuova parola nella poesia,

   Come percepiamo un nuovo suono nella musica

   E nuovi colori sulla tela di un quadro,

   Ogni routine e ogni maniera

     Sono la morte della fede e la morte della coscienza

   Dacci, o Signore, l’ispirazione della fede!

   Parlando del ricco patrimonio letterario lasciato da Roman Brandstaetter non si può non accennare al suo aspetto francescano. Lo scrittore era affascinato dalla figura del Poverello di Assisi. Questo santo che contrasta in modo così stridente con l’immagine dell’uomo comunemente osservata, così lontana dalla semplicità e dalla schiettezza evangelica, per Brandstaetter rappresenta la conferma delle più alte possibilità morali dell’uomo.

  

   Verso la fine degli anni ’80 il settimanale socio-culturale cattolico “Kierunki” (Orientamenti) pubblicò un articolo di Józef Dużyk (1928-2000), storico, scrittore e pubblicista di Cracovia, anch’egli grande ammiratore dell’Italia. Il titolo era “Il fascino dell’Italia nella creazione di Roman Brandstaetter”. Ecco alcuni frammenti nella mia traduzione:

   Il fascino dell’Italia iniziò forse nel modo più evidente nel momento in cui, fulminato come Paolo sulla via di Damasco, Brandstaetter modificò il suo pensiero e la sua fede, senza peraltro rinnegare le sue origini ebraiche, e abbracciò la religione cattolica. Brandstaetter descrive questo momento provocato da una fotografia, nel suo libro “Il cerchio biblico”, quando durante la guerra prestava servizio a Gerusalemme presso l’Agenzia Telegrafica Polacca. Terminato il lavoro dopo mezzanotte, prima di lasciare l’ufficio, cercò qualcosa da portare con sé per leggere a casa. Mentre sfogliava alcune vecchie riviste, da una di esse scivolò a terra una fotografia. Lo scrittore la raccolse. Raffigurava un Crocifisso del XVII secolo, opera di Innocenzo da Palermo, situato nella chiesa di san Damiano ad Assisi. “Sentii il fruscio degli ulivi – scrive Brandstaetter – che crescono sui pendii delle colline umbre  e avvertii l’irresistibile bisogno di tornare ad Assisi – Sì! Tornare – anche se ancora non ero mai stato in quella città. Ciò doveva rappresentare uno stupefacente ritorno da un mondo di valori infranti a un valore immutabile, assoluto e indistruttibile…”

   Assisi fu senza dubbio la città che più affascinò Brandstaetter e una prova eloquente di ciò è fornita in particolare dai suoi libri pieni di sincera poesia e lirismo intitolati rispettivamente “Cronache di Assisi” e “Nuovi fioretti di san Francesco”. Nella sublimazione di questa città lo scrittore riuscì a racchiudere non solo l’essenza del pensiero e delle azioni di san Francesco, ma anche a delineare in modo espressivo e pittoresco il paesaggio in cui si era svolto il mistero francescano, uno di quei misteri che hanno incantato non solo più di un cattolico, ma anche persone assai lontane dalla religione e dalla fede. A distanza si anni dal suo primo soggiorno ad Assisi in compagnia della moglie, Brandstaetter scrisse: “Quando nell’inverno del ’46 giungemmo per la prima volta ad Assisi, ebbi l’impressione come di tornare nella mia città natale dopo un lungo viaggio. Questa città non mi fu mai estranea. Anche quando non la conoscevo ancora essa fu sempre per me sinonimo di rifugio, fiducia e serenità, sinonimo di quei valori inestimabili che creano il concetto di asilo francescano”.

   Nel 1982 la casa editrice “Wydawnictwo Poznańskie” pubblicò un altro libro di Brandstaetter intitolato “Paesaggi italiani”, che può essere considerato una sintesi delle impressioni ed esperienze italiane dello scrittore. In esso vediamo fino a qual punto egli fosse affascinato dall’Italia, dal paesaggio, dalle città, dalla storia e dall’arte italiane. Qui infatti scorrono le stupende immagini delle più importanti località della Penisola Appenninica: ecco Venezia, la Toscana con Firenze, l’Umbria con Assisi, Roma e i dintorni, e tanti altri celebri e celebrati luoghi.

   La grande varietà di mezzi espressivi di cui disponeva Brandstaetter gli consentiva di creare immagini piene dei colori della vita, di riprodurre artisticamente l’atmosfera delle città, delle strade, delle piazze, a dimostrazione del suo profondo amore per l’Italia. Ma ciò era anche il prodotto della sua nostalgia per questo paese, del bisogno che avvertiva di descriverlo, di ricordare ciò che aveva visto e ciò che lo aveva maggiormente colpito. I pensieri dello scrittore relativi alle città e ai paesaggi italiani sono una prova della profondità delle sue osservazioni e al tempo stesso della percezione del fascino esercitato su di lui da ciò che vedeva. La poesia intitolata “Venezia” è un esempio di esatta interpretazione del paesaggio, dell’arte, ma anche espressione dei meandri della propria filosofia. Andando in gondola lungo il Canal Grande vede il gondoliere  che “rema con il canto – remo della malinconia. Passa lungo l’altera Serenissima legata al simbolo del leone e alla grandiosità della sua arte, rappresentata nella poesia da uno dei massimi maestri – il Veronese; ricorda Byron imprigionato nel Palazzo dei Dogi, e attraverso la sua penna questo Palazzo diventa un “sonetto di architettura”. Brandstaetter ha racchiuso nella poesia “Venezia” tutto ciò che è possibile dire di questo eccezionale, incantevole edificio, decifrandone la grazia, il fascino e l’eleganza architettonica, ma ricordando contemporaneamente con quanto dice sulle grate delle celle – il lato cupo della sua storia. In gondola l’autore passa “attraverso i palazzi ricamati con il filo moresco”:

   E intorno a me c’è tanta realtà,

   Che volendo appieno comprenderne l’eccesso

   Devo tradurla

     Nella metafora del gondoliere,

   Che ha avvolto il collo

   Nel sole che tramonta.

   In altri tre quadretti veneziani descrive gli attimi trascorsi al di fuori del salotto della città, cioè Piazza san Marco incredibilmente affollata, quando può contemplare gli angolini più riposti, dove richiama l’attenzione non sulle meraviglie architettoniche, ma su aspetti della vita di ogni giorno: le case e i canali appartati, una nera barca con il barcaiolo addormentato, i panni colorati stesi sui balconi – immancabile ornamento dei vicoli italiani, i vasi di azalee, un cane che sonnecchia, due vecchi che giocano a scacchi…

   Dalla laguna di Venezia Branstaetter trasporta il lettore nella pittoresca Toscana, il cui

   Panorama ricorda

   Un vecchio arazzo,

   Per la verità i suoi colori

   Sono alquanto sbiaditi,

   Ma c’è in essi

   La maturità

   Della terra affaticata.

   Ci sono naturalmente gli inseparabili ornamenti della Toscana, o meglio del suo capoluogo rinascimentale: Ponte Vecchio, percorso da una ventenne “Beatrice con un golfino azzurro che si reca dalla modista per un nuovo cappellino”, ; c’è Piazza della Signoria con il pozzo del Nettuno, il monumento a Cosimo de’ Medici, la Loggia dei Lanzi. Bandstaetter sa contemplare il passato e le bellezze di Firenze, sa distinguere l’inquinamento del fiume Arno che attraversa la città, dalla grazia dei ponti e delle opere d’arte che si trovano in essa.

   “Il carattere del paesaggio italiano – scrive Brandstaetter – è musicale. La sua musicalità tuttavia si esprime non solo nei suoni che accompagnano la vita quotidiana di questa terra, ma anche nella linea dei colli e delle valli, nella prospettiva dei viali di cipressi, nella malinconia delle antiche fontane che hanno il colore e il profumo delle opere di Debussy”.

   Nell’affascinante “avventura” italiana di Brandstaetter non potevano mancare le passeggiate romane, alla ricerca di luoghi che è difficile dimenticare, che restano nella memoria per tutta la vita, che sono il simbolo della Città Eterna. Dal Monte Pincio, guardando le cupole, i tetti e i campanili di Roma, lo scrittore osserva:

   E niente è prematuro

   E niente è in ritardo,

   Nemmeno il frullare d’un uccello

   Dentro un aloe.

   So soltanto questo:

   Basta rendersi conto  

   Dell’impotenza di fronte alla Tua volontà,

   o Dio,

   Per sentirsi molto felici.

   La felicità per il poeta è anche il fatto di aver potuto ascoltare più d’una volta la melodia delle fontane italiane che s’immerge nel musicale paesaggio dell’Italia. Lo scrittore avverte in esso la tristezza delle antiche rovine di Paestum, la maestosità della cattedrale di Palermo, le bellezze di Capri, Ischia, Amalfi, Taormina e i bagliori dei mosaici di Monreale.

   Ma ecco fino a che punto il fascino dell’Italia e in particolare di Assisi lasciò un’impronta indelebile nella personalità e nell’arte di questo scrittore: fantasticando sull’aspetto del mondo dell’aldilà, Brandstaetter non poté fare a meno di immaginarselo come un frammento di paesaggio italiano, ovvero di Assisi: “Oggi ho pensato che nell’altro mondo sarà stupendo come in Piazza del Comune a mezzogiorno. Seduti sulle sedie di vimini a bere il caffè, io fumerò la pipa e ammireremo Santa Maria sopra Minerva. Ci sarai tu, mia cara, ci sarà padre Paolo che lancia fulmini contro la vanità di questo mondo, e ci saranno i colombi che arrivano da ogni parte sulla piazza. Solo sarà un po’ più silenzioso. E sicuramente sarà del tutto diverso, ma ciò nonostante recandomi nell’altra parte della realtà, crederò fermamente di dirigermi verso Piazza del Comune ad Assisi, a mezzogiorno”.

   Forse – conclude il suo articolo Józef Dużyk – sulla tomba dello scrittore a Poznań stormiscono i pini e i cipressi italiani…

Poesia e prosa di Roman Brandstaetter nella traduzione di Paolo Statuti

Ritorno ad Assisi

Ci sono ritorni, mia cara.

Il tempo si può trattenere

Con la mano

Come un bambino.

Guarda. Assisi.

La stessa di anni fa.

Solo Prospero ha fatto fortuna,

Solo il rubicondo signor Rossi è morto,

Solo Taddei è diventato un uccellino,

Solo in via della Catena

Si sono spenti gli specchi.

Non rattristiamoci,

Sono gli errori del tempo,

Che a volte non sa memmeno lui

Quello che fa.

Questa domanda è l’eternità.

Dove?

Ma noi andiamo, andiamo.

1960

Inno alla preghiera

Appari

E sii per me d’aiuto

Preghiera delle notturne meditazioni,

Mia confidente.

Hai senso solo quando

Sei il giudizio di Dio sull’uomo.

Non parlare con la loquacità della mia bocca,

Ma sii il mio orecchio,

Attento e infallibile,

Che sente tutto ciò

Che il Signore dirà.

Fa’ che in una frazione di silenzio

Io racchiuda tutto il mio essere.

Sii silenzio della mia bocca,

Silenzio che annuisce al volere divino

Che testimonia il volere divino

Che conferma il volere divino

Che suggella il volere divino.

Non sono degno

- Foglia caduta dall’albero –

Di unirmi al Signore,

Ma fa’

Che la mia anima,

Questa minuscola molecola della Divinità,

Sia consapevole della propria origine,

Che la rende una particella dell’Innominabile

Un riflesso del Rovo ardente

Del Rovo spinoso

Del Rovo Crocifisso.

Appari

E sii per me d’aiuto

Preghiera delle notturne meditazioni,

Mia confidente.

La preghiera dei Re Magi

Perdonaci, Dio, se creiamo.

Le nostre parole sono indegne del loro nome.

Esse non erano al principio

Né saranno alla fine,

Non erano in Te,

Né sono Te.

Tramite esse non succede nulla.

Le nostre parole non sono belle

Né testimoniano della bellezza,

Le nostre parole non saranno mai carne

E mai abiteranno tra gli uomini.

Esse sono illusione raminga.

Dunque perché esistono? Forse per sgravarsi,

Tra continue rinunce e restrizioni

Nel cerchio del desiderio che si stringe sempre più,

Di tutto ciò

Che è superfluo nell’eternità?

O Dio che cosa è superfluo nell’eternità?

Siamo le fonti intorpidite del sapere.

Non siamo in ciò che creiamo,

Perché nei nostri libri

Cerchiamo di essere migliori

Di quanto non siamo in realtà.

Smarriti, raccogliamo le tibie degli inni caldei

Sparse sulla terra.

Le nostre fronti sono già un campo di stoppia,

E le nostre tempie ciglio di un monte chino

Sulla morte, che è il succo di tutta la vita.

Menzognera è la bocca dei nostri libri,

Freddi sono i corpi dei nostri libri.

E’ già giunta la nostra ora.

Ma volendo prima della morte

Semplificare la nostra scienza intricata,

Abbiamo deciso di recarci da Te, o Dio,

Nella terra giudea,

Nella Betlemme d’argilla.

Ci guida la stella più vera di tutte le stelle,

Perché ancora non menzionata

Nei manuali di astronomia.

Per questo i nostri pensieri gettano un’ombra sempre più lunga,

E le nostre labbra sono screpolate dalle preghiere

Come antiche gradinate.

Lentamente avanzano i cammelli, carichi d’oro e d’ambra,

Percorriamo vicoli sporchi con botteghe dove siedono

Uomini col narghilè tra i denti e meditano

Sulla riva della rigonfia Bibbia. E’ la stagione delle piogge.

I nostri tabarri sono già neri per i venti.

Sulla piazza ronfa l’organetto assonnato, e un alato mercante

Si solleva sulle arance e sui datteri.

Sulle alture d’oro, sulle alture d’oro

E’ la salvezza dei mercanti, che pregano

Per il peso falso della frutta.

E presso le pareti del tempio dormono i sacerdoti satolli,

Storditi dal vuoto come dal robusto vino.

Neanche nel sonno cantano, perché non sanno cosa cantare.

Qualcuno ha dato un calcio a una pentola con il fondo bucato.

Il fondo del mondo.

La stella si è fermata sulla Grotta e ha intonato

Un canto di Natale intrecciato di angeli.

E noi tre, re magi, curvi sotto il peso

Dei libri, vuoti come crani bruciati nel deserto,

Tremiamo di spavento, anche se siamo felici.

Ci turba infatti il pensiero che lasciando Te,

Dovremo percorrere una strada diversa

Da quella che ci ha portati qui.

Non potremmo tornare, o Dio, seguendo la stessa strada?

Qoèletnelcassetto

   Non esistesuperioritàdell’uomorispettoalle     

   bestie, perché tutto è vanità.   

   Qoèlet, 3, 19     

   Nel terzo cassetto a destra della vecchia scrivania di Anselmo si era sistemato un tarlo.

   – Vale la pena lavorare tanto, tarlo? – gli chiese Anselmo un giorno in cui, aprendo il cassetto, notò una nuova porzione di polvere posata sulle carte.

   – Tu credi – replicò il tarlo – che del tuo lavoro resterà qualcosa di più di un pugnetto di polvere grigia sul fondo del vecchio e marcio cassetto che chiamate Terra?

   E Anselmo di rimando:

   – Scusami, tarlo, ma c’è una certa differenza tra il tuo insensato scavare il legno e la mia creazione.

   – Creazione? Tu chiami creazione il tuo scavare inutilmente la realtà?

   – Sei uno sfrontato – rispose Anselmo – farò venire un falegname che ti concerà  per le feste…

   – Puh! – disse con disprezzo il tarlo. – Un giorno anche per te verrà un falegname, povero presuntuoso.

     Anselmochiuse sbattendo con rabbia il cassetto e pensò: Questo tarlo deve aver letto il libro di Qoèlet…

Il circo

   Le epoche più tragiche nella storia dell’umanità sono quelle in cui i malvagi lottano contro i malvagi per il bene, gli stupidi contro gli stupidi per la saggezza, e gli schiavi contro gli schiavi per la libertà. Allora non si sa bene per chi dichiararsi e quale parte appoggiare. Mi sembra che in tali circostanze la cosa migliore sia quella di assumere l’atteggiamento di uno spettatore seduto in un circo, mentre osserva l’esibizione dei clown che si prendono a schiaffi a vicenda. Indubbiamente è una posizione da chierico, ma cos’altro può fare in tali casi un uomo rassegnato, consapevole dell’inferno che lo circonda da ogni parte?

Il fascino della noia

   Una grande folla ha invaso Piazza san Marco. Per salvarci dal febbrile andirivieni di turisti di lingue diverse, lasciamo in fretta la piazza e ci rifugiamo nelle stradine laterali tra quiete case e canali appartati. In uno di essi ondeggia una barca nera, e sul fondo dorme il barcaiolo comodamente sdraiato, con il viso coperto da un cappello di paglia, che buffamente si alza e si abbassa al ritmo del respiro del proprietario, che si gode il dolce far niente. Sui balconi sono stesi panni colorati – immancabile ornamento dei vicoli italiani. Alla finestra di una casa medioevale in Corte dei Preti, tra vasi di azalee, un uomo robusto in maglietta bianca guarda in fondo alla stradina, dove due vecchi abbronzati giocano a scacchi. Accanto un cane sonnecchia su una poltrona sfilacciata. L’uomo alla finestra gonfia il petto e allarga le braccia, si stira e sbadiglia. Uno dei due vecchi solleva un pedone, ma la sua mano indecisa resta sospesa sulla scacchiera. Guardiamo con tenera soddisfazione quel quadro di silenzio e di noia e desideriamo conservarne nella memoria il più a lungo possibile l’impeccabile fascino.

   Anni fa ho tradotto alcuni brani del libro “Il cerchio biblico”, un capolavoro di Roman Brandstaetter, inviandoli a un paio di editori italiani come proposta di stampa. Purtroppo essi sono rimasti ciechi e sordi, perdendo in tal modo una buona occasione di successo editoriale. Li ripropongo ora nel mio blog, sperando che qualcuno capisca finalmente la bellezza e l’importanza di questo libro, e si decida a pubblicarlo in Italia.

Roman Brandstaetter: Il cerchio biblico

   Editrice PAX, Varsavia 1986

     167 pagg. Formato 14.5×20.5 cm. senza illustr.

   Quarta edizione ampliata

Frammenti di due recensioni riportate in quarta di copertina.

   “La grande opera di uno scrittore deve avere necessariamente uno sviluppo notevole? No. E un piccolo libretto può essere una grande opera? Può esserlo. (…) Il cerchio biblico di Roman Brandstaetter è appunto un grande piccolo libretto. (…) Questo libretto bisogna leggerlo nel silenzio, quando si ha la certezza che nessuna questione terrena verrà a turbare il clima di questioni elevate, Divine e umane”.

   Marian Brzeziński

   “Słowo Powszechne” Nr 253, 15/16 XI, 1975

   “I biblisti polacchi si chiedono in che modo invogliare i cattolici a leggere la Sacra Scrittura. (…) Brandstaetter, scrittore animato da questa stessa sollecitudine, dimostra nel ”Cerchio biblico” in qual modo anche un laico possa mantenere un legame costante con la Bibbia e approfondirne la conoscenza per tutta la vita”.

   Halina Sławińska

   “Życie i Myśli” Nr 6 VI, 1976

Brani del „Cerchio biblico” di Roman Brandstaetter, tradotti da Paolo Statuti

Il cerchio biblico

   Nessuno di noi possiede la ricetta per una buona e giusta esperienza biblica e nessuno può fornire ad un altro tale ricetta. Ciascuno deve conquistare per se stesso questa capacità, tanto più che essa equivale sempre a una ricerca di ciò che desideriamo trovare nel libro, vale a dire le risposte alle domande che ci assillano. Poiché secondo le nostre inquietudini e i nostri affanni poniamo al Santo Libro domande diverse, ognuno di noi dovrebbe a modo suo leggerlo, viverlo e seguire gli insegnamenti da esso impartiti.

   Il cerchio biblico racchiude in sé non soltanto i settori difficili della nostra conoscenza, delle nostre esperienze di vita ed emozioni letterarie che foggiano ed ampliano il nostro rapporto con la Sacra Scrittura, ma anche le persone che con la loro azione hanno influito sull’ approfondimento del nostro rapporto con le ispirate Scritture. L’amore per la Bibbia e l’esperienza biblica sono sempre la risultante di molti stimoli assai personali, che a volte è difficile scoprire, formulare e perfino cogliere. L’esperienza biblica, ovvero una appropriata lettura della Bibbia, dipende quindi da un insieme di presupposti psicologici e culturali estremamente complessi, e soprattutto da quel peculiare udito – io lo definisco udito biblico – che ci rende sensibili alla bellezza, alla profondità e alla sapienza della Parola Rivelata. Così come è possibile educare all’ascolto della musica una persona musicalmente ottusa, esistono mezzi che permettono un’acuta e saggia lettura della Bibbia. Per questo ho deciso di descrivere le mie esperienze bibliche, nella speranza che alcune di esse formanti il mio rapporto con il Santo Libro, possano in qualche modo essere di aiuto al lettore nel suo personale cammino verso le fonti della Rivelazione. Vorrei che queste confessioni svolgessero il ruolo di un passante occasionale al quale chiediamo la strada. Il passante è in buona fede e non ha intenzione di fornire risposte errate, né d’indicare una falsa direzione, ma ciò non significa che la via da lui indicata sia la migliore, la più diretta e soprattutto la più appropriata. Forse le mie esperienze e i miei argomenti lasceranno indifferente più di un lettore. Ma può accadere che egli trovi tra essi parole o giudizi che malgrado l’incapacità di esprimere ciò che dovrebbero esprimere, letti in un momento favorevole – chi può sapere quando? – gli consentiranno di superare l’ostacolo  e di entrare nel cerchio biblico.

Il bisogno di conoscere la Sacra Scrittura

   Guardiamo la verità negli occhi. A molti la Sacra Scrittura sembra superflua per la vita e per la fede. Credono in Cristo, senza sapere chi Egli sia. La loro conoscenza del Dio-Uomo si esaurisce in qualche verità del catechismo e in alcuni racconti evangelici sparsi, senza un nesso tra loro. Si può azzardare l’affermazione che vaste schiere di cattolici credono in Cristo, senza conoscere la Sacra Scrittura. Non metto in dubbio la sincerità dei loro sentimenti religiosi, ma è difficile non rilevare che una simile coscienza confessionale, avulsa dalle sue radici storiche, si trasforma in pratica in una mitologia dai contenuti primitivi.

   La quotidiana lettura del Vangelo obbliga a confrontare la nostra vita con l’insegnamento di Cristo. La riluttanza a leggere ogni giorno la Sacra Scrittura il più delle volte è frutto dell’ignavia, che origina da un senso di spavento dinanzi al confronto con la verità di Dio. In tribunale la legge non ammette ignoranza. Cristo ha chiesto agli uomini di venerare ciò che conoscono. Nel colloquio con la Samaritana presso il pozzo di Giacobbe ha detto chiaramente:

“Voi adorate ciò che non conoscete;

Noi

Adoriamo ciò che conosciamo…”

(Giovanni, 4,22)

Come visitai la tomba del patriarca Abramo

   Non l’avevo conosciuto. Morì centenario due anni prima della mia nascita. Tuttavia grazie ai racconti di mio nonno e di mio padre il bisnonno aveva assunto nella mia fantasia di fanciullo le proporzioni di un patriarca biblico e, scolpitosi per sempre nella mia memoria in questo aspetto, formò la mia visione di molti eventi remoti e misteriosi, che senza il suo concorso forse non avrei mai compreso.

   Si chiamava Abramo. David era il suo nome di famiglia. Discendeva dai Sefarditi. Era nato a Varsavia nel 1804. Non volendo andare sotto le armi – nel 1842 il governo russo promulgò una legge che imponeva agli Ebrei il servizio militare venticinquennale – si trasferì con la famiglia nell’allora Galizia e si stabilì a Tarnów. Assieme a lui emigrò da Varsavia il fratello minore di sua moglie, Isidoro Brunner, il quale dopo un breve soggiorno in Galizia si recò in Italia e nel 1848 entrò nella Legione romana di Adam Mickiewicz. Oltre al fatto che il mio bisnonno fosse nato a Varsavia, a quell’epoca non sapevo nulla del suo passato e delle sue parentele. Tutta la mia attenzione era concentrata sulla figura del vecchio e sul suo nome biblico, che con il suo suono maestoso mi riempiva di rispetto e timore.

   Il bisnonno era un uomo molto pio, uno zelante chassid, seguace della dinastia degli zaddik di Góra Kalwaria. Sulla sua religiosità circolavano racconti edificanti. Mio nonno, che per il suocero nutriva una profonda stima, mi narrava diversi fatti della sua vita, che testimoniavano della sua devozione, saggezza e ospitalità, e soprattutto benevolenza. Ogni venerdì, di buon’ora, distribuiva personalmente ai poveri che si radunavano nel cortile della sua casa, denaro, pane e grandi quantità di olio; era infatti proprietario di due presse per l’olio di lino, una vicino a Tarnów, a Klinowa, la seconda nella stessa Tarnów, in via Olejarska, che aveva preso il nome dall’oleificio del bisnonno. Quando morì, una folla di poveri in lacrime assistette al suo funerale.

   Per effetto di questi racconti, fin dalla prima infanzia avevo identificato la figura del mio bisnonno con il biblico Abramo di Ur dei Caldei, come ho già scritto nel capitolo precedente – l’identità dei nomi in questo processo associativo ebbe certamente un ruolo notevole – e tale associazione è perdurata in me fino ad oggi. Per questo tutte le volte che leggo nel Libro della Genesi la sua storia, lo vedo così com’è nella fotografia che si trova in uno dei cassetti del mio scrittoio. Vedevo quindi il mio bisnonno mentre usciva da Ur, città dai contorni nebbiosi di una immaginaria Varsavia orientale, mentre si dirigeva verso la “terra promessa” che mi rammentava i miei Carpazi, mentre in modo ospitale accoglieva gli angeli nella sua casa alle Querce di Mamre, e poi mentre si recava con il figlio Isacco sul Monte Moria, così simile al Monte di san Martino, dove a volte mi portavano a passeggiare i miei genitori. Tutti questi eventi si configuravano con armonia in racconti realisticamente composti, nei quali non c’erano né anacronismi né arbitri. Passato e presente così intrecciati fra loro formavano nella mia coscienza un insieme indivisibile, e avrei giudicato certamente pazzo chi avesse osato separarli con un abisso di quattromila anni. Fu il mio bisnonno ad insegnarmi dalla tomba a vivere la Bibbia come un evento incessantemente attuale.

   Ricordo che un giorno mio padre mi portò al kirkut. Ci fermammo davanti a una semplice tomba, ricoperta di acacia selvatica. Sulla lapide erano incise parole in ebraico, che vanamente mi sforzavo di decifrare.

   – Qui giace il tuo bisnonno Abramo. Prega…- disse mio padre, spazientito dal mio incerto compitare le consonanti ebraiche prive della punteggiatura masoretica, il che mi complicava la decifrazione del testo.

   La soverchia emozione m’impediva di pregare.

   – Ricordi cosa ti ho raccontato di lui? – chiese mio padre dopo un lungo silenzio.

   – Ricordo…- risposi.

   – Fu un buon uomo…

   – Sì…

   – Vorrei che anche tu fossi buono come…

   Tacevo turbato.

   – Era molto devoto…

   – Lo so…lo so…- interruppi mio padre – è lui che voleva sacrificare a Dio suo figlio Isacco…

   Mio padre mi guardò stupito, sorrise e – non mi corresse.

   Di ciò gli sono molto grato.

Libro vivo

   E’ una notte di luglio. Sulla mia scrivania c’è la Sacra Scrittura.

Allungo la mano per prenderla. Per effetto di quel gesto il flusso del

passato è così travolgente, che non posso fare a meno di ricollegare la mia mano tesa alla mano del nonno segnata dalle rughe, che prendeva il volume della Bibbia ebraica rilegato in tela nera.

   La Bibbia si trovava sulla scrivania del nonno. La Bibbia giaceva sui tavoli dei miei avi. Mai nella biblioteca. Sempre a portata di mano. In casa nostra nessuno doveva mai cercare la Bibbia, e non ho mai sentito che qualcuno chiedesse dove essa fosse. Si sapeva che dai nonni stava sulla scrivania, da noi sul tavolino accanto alla poltrona sulla quale di sera era solito sedersi mio padre. Il luogo dove si trovava la Bibbia, per me era un luogo privilegiato. Se allora mi avessero chiesto in cosa consistesse quel privilegio, di sicuro non avrei saputo rispondere, e tuttavia avvertivo in modo straordinariamente chiaro la singolarità di quel luogo. Esso era per me il centro dell’intera abitazione, il punto più eminente, intorno al quale tutto ruotava. Quando mio padre la sera leggeva la Bibbia, camminavo nella stanza in punta di piedi. Non avrei mai osato interrompere il nonno nella sua lettura. Entrambi per me in quegli attimi erano degli intoccabili. Fin dai primi anni dell’infanzia fui testimone di un’incessante dimostrazione della santità di quel Libro, del suo culto e della sua sublimità. Il semplice fatto di aprirlo era già un atto sublime. Nel mistico Zohar è scritto: “Quando si prende il Santo Libro per leggerlo si aprono le celesti porte della misericordia e si ravviva l’amore nell’alto dei cieli”. Mio padre mi raccontava che il bisnonno ogni volta, prima di toccare la Bibbia, si lavava le mani e pregava chiedendo la grazia di una saggia lettura. Il mio primo insegnante di lingua ebraica – morì nel 1914 nella battaglia di Kraśnik – mi dava le bacchettate sul palmo della mano, quando osavo toccare con un dito le sacre lettere del Pentateuco.

   Il nonno fin dalla prima giovinezza annotava in ebraico, con una calligrafia minuta, sul lato interno delle due copertine della Bibbia, e poi su fogli di carta incollati ad esse e ritagliati con pedantesca precisione in modo che avessero le stesse dimensioni del Libro – le date di morte dei suoi antenati e dei parenti più stretti. Erano annotazioni sulla morte dei suoi trisavoli, bisnonni e nonni – uno di loro morì tragicamente nel 1793 in circostanze che ricordavano una ballata romantica – trisavole, bisnonne e nonne, zii paterni e materni, cugini, figli, nipoti e infine mia nonna. Mentre scriveva il suo nome – mi trovavo appunto accanto a lui – chiesi:

   – Perché scrivi sulla Bibbia i nomi dei morti?

   - Perché è il libro dei vivi – replicò, senza smettere di scrivere.

Il nonno parla dell’arte di leggere la Bibbia

   Forse frequentavo la settima ginnasiale. Un giorno di primavera il nonno mi portò a passeggio fuori città, in direzione del Monte di san Martino. Superammo piazza Sanguszko situata all’interno di un bellissimo vecchio parco tra faggi e platani rossi e imboccammo una strada fiancheggiata da meli selvatici, che si arrampicava come una gobba ondeggiante fino ai piedi del monte, sulla cui cima si ergevano le  sdentate rovine del castello Tarnowski.

   Il nonno si fermò.

   – E’ così bello che vale la pena di parlare un po’ della Bibbia – disse.

   E cominciò a parlare dell’arte di leggerla.

   Conservo vivo nella memoria il monologo del nonno, anche se non sono certo che lo abbia pronunciato interamente quel giorno, mentre passeggiavamo sulla strada fiancheggiata dai meli selvatici. Probabilmente, seguendo la mia innata tendenza all’unità di tempo, di luogo e d’azione, non volendo ho collegato tra loro in un tutto unico alcuni concetti del nonno risalenti a un periodo successivo. Del resto io misuro il tempo che professo – ognuno è seguace del proprio tempo – con il contenuto che racchiude in sé; per questo per me due fatti, anche se lontani nel tempo, avvengono sempre contemporaneamente se esprimono un identico contenuto.

   – Symeon ben Jochaj era solito dire che ogni parola della Scrittura nasconde un mistero – diceva il nonno. – E poiché alla soluzione del mistero portano di regola molte strade, cerca di leggere la Bibbia in modi diversi. A volte leggi “con la lente e l’occhio del saggio”, esamina con attenzione ogni parola del testo, altre volte invece sbriglia la fantasia e rifletti con un acume un po’ meno indagatore e affinato, ma in compenso con il cuore più aperto, sui fatti che si svolgono nelle pagine del Libro. Ogni volta troverai in questi brani altri valori. Leggendo un qualunque paragrafo venti volte, almeno dieci volte dovresti leggerlo in modo diverso, ed ogni volta scoprire in esso altre distese. Ma non essere mai sicuro di aver raggiunto il suo giusto significato, il nocciolo della questione. Non lasciarti prendere dal panico se ad ogni nuova lettura ricaverai valori diversi dal medesimo testo, perfino tali da escludersi a vicenda. La Bibbia è un elemento senza fondo e senza confini. Nessun ricercatore, esegeta, teologo, studioso e scrittore è giunto alle sue fonti più profonde. Perciò non perderti d’animo se nella Bibbia non capirai qualcosa. Nemmeno persone più sapienti di te hanno capito tutto. Ma sii sempre preparato a rivelazioni e scoperte improvvise, che nel corso delle precedenti letture avevano eluso la tua attenzione. Leggerai ripetutamente lo stesso paragrafo senza trovare quello che cerchi, finché all’improvviso, un giorno, non solo otterrai una chiara risposta alle domande che ti angosciano, ma coglierai strati di immagini e pensieri che fino a quel momento ti erano sfuggiti, e allora scorgerai ciò che ti era completamente velato durante tutte le precedenti letture. La Bibbia è simile a Dio. Non permette di essere conosciuta e approfondita fino in fondo.

   Questo è tutto ciò che ho conservato nella memoria del monologo del nonno sull’arte di leggere la Bibbia. Quei suggerimenti sono diventati per me l’indicatore da seguire in ogni singola lettura del Libro, mi hanno protetto da più di uno smarrimento e mi hanno risparmiato molte delusioni. Per questo torno sempre con un senso di tenerezza ai ricordi di quella passeggiata fuori città, ai faggi e platani rossi, alla strada fiancheggiata dai meli selvatici e al vecchio, la cui alta figura getta una buona ombra sulla mia infanzia e prima giovinezza. La memoria è come un sospiro. 

  

3

   Terminai il lavoro dopo mezzanotte. Accesi una sigaretta. Mi alzai dal tavolo, guardai intorno nella stanza e mi ricordai che in casa non avevo niente da leggere. Diedi un’occhiata agli opuscoli di propaganda ammucchiati in disordine sullo scaffale, ad alcuni romanzi che chissà come si trovavano nell’ufficio della radioricezione, e posai lo sguardo sulla pila di vecchi settimanali situata vicino a una delle scrivanie. Estrassi a caso qualche numero. Da uno di essi cadde sul pavimento un inserto. Lo raccolsi. Era la riproduzione di una scultura del XVII secolo di Innocenzo da Palermo della chiesa di san Damiano ad Assisi, raffigurante il Crocifisso. Sentii il fruscio degli olivi che crescono sui pendii dei colli dell’Umbria e avvertii l’irresistibile bisogno di un ritorno ad Assisi – sì! Ritorno! – anche se non avevo mai visitato quella città. Sarebbe stato uno straordinario tornare da un mondo di valori infranti a un valore permanente, assoluto e indistruttibile, che tempo prima a cuor leggero e prodigalmente avevo abbandonato in circostanze così remote e misteriose, che non riuscivo in alcun modo a ricostruirle nella coscienza. Poteva essere successo benissimo secoli prima, nell’implacabile memoria del tempo impressa in ogni uomo, come pure moltissimi anni prima, quando inavvertitamente avevo oltrepassato la magica soglia dell’infanzia. Osservavo la riproduzione. Raffigurava Cristo un istante dopo la Sua morte. Dalle labbra dischiuse era esalato l’ultimo respiro. La pungente corona era posata sulla Sua testa come un nido intrecciato di spini. Aveva gli occhi chiusi ma vedeva. La Sua testa era ripiegata inerte sulla spalla destra, ma dal volto si vedeva che prestava attenzione a tutto ciò che avveniva intorno. Quel Cristo morto viveva.

   Pensai:

Dio.

   Infilai la riproduzione nella cartella e uscii.

4

   Stavo tornando a casa. Le strade erano deserte. Soffiava un vento fresco. Di tanto in tanto ni superavano pattuglie di soldati e da lontano, dalla parte del Katamon, giungeva il canto dei galli. Da dietro il muretto che cingeva un giardino pendevano i gambi biforcuti dell’agave. Quando entrai nella Valle della Santa Croce sentii il flebile lamento degli sciacalli, ma anch’esso ben presto cessò e di nuovo camminavo in una quiete assoluta, radiografata dalla luna piena.

   Albeggiava. Attraverso le fessure delle serrande per metà alzate irruppe nella stanza l’improvviso chiarore del giorno, e coprì le pareti e il pavimento di strisce color oro scuro. Sollevai le serrande. Il cielo, i monti e la valle, le due strade serpeggianti sul suo sfondo, la soffice nuvola di polvere che si sollevava da sotto gli zoccoli dei lenti muli – tutti questi dettagli che conoscevo così bene si componevano adesso in una nuova, gioiosa, francescana conferma di Dio, del mondo e degli uomini, così bella che in seguito tutte le volte che mi sentivo oppresso da difficili esperienze e casi della vita, tornavo sempre col pensiero alla Valle della Santa Croce, che ho conservato nella memoria come il luogo dell’Incontro. Aprii il Nuovo Testamento, come si apre la porta della casa paterna, e lessi:

“C’era tra i farisei un uomo

Di nome Nicodemo, dignitario giudeo.

Egli andò da Lui di notte

E gli disse:

“Rabbi, noi sappiamo

Che Tu,

Maestro,

Sei venuto da Dio,

Perché nessuno potrebbe compiere i prodigi

Che Tu fai,

Se Dio non fosse con lui”.

E Gesù, rispondendogli,

Disse:

“In verità, in verità ti dico:

Se uno non nascerà di nuovo,

Non vedrà il regno di Dio”.

Nicodemo Gli chiese:

“Come può rinascere un uomo,

Se è già vecchio?

Può forse una seconda volta

Entrare

Nel seno materno

E rinascere?”

Gesù gli rispose:

“In verità, in verità ti dico:

Chi non rinascerà

Dall’acqua

E dallo Spirito,

Non entrerà

Nel Regno di Dio,

Ciò che è nato dalla carne

E’ carne,

Ciò che è nato dallo Spirito

E’ Spirito.

Non ti meravigli

Ciò che ho detto:

- Dovete nascere di nuovo. –

Il vento soffia a suo piacere,

E tu senti il suo mormorio,

Ma non sai da dove venga

Né dove vada.

Così è di ognuno

Che è nato dallo Spirito”.

(Giovanni 3, 1-8)

5

   Nel mio Incontro notturno non vi fu nulla di straordinario, tutto si svolse nell’ambito degli avvenimenti quotidiani, condizionati dal mio lavoro e dalle abitudini ad esso connesse, come fumare le sigarette, camminare su e giù per la stanza per sgranchire le gambe, o leggere il giornale o un libro nei brevi intervalli tra una trasmissione e l’altra, come una manciata di tristi riflessioni sul futuro, come infine il ritorno a casa lungo le strade deserte di Gerusalemme. Perfino ciò che ho taciuto sull’Incontro notturno, appartiene alla sfera dei fatti così comuni e consueti, che posso tranquillamente caratterizzarli mediante la risposta che ho dato qualche giorno fa a Janek, un ragazzo sedicenne che mi chiedeva timoroso, se il passaggio degli Ebrei attraverso il Mar Rosso fu davvero un prodigio, visto che secondo certi studiosi esso avvenne grazie all’azione naturale della bassa marea e non aveva niente in comune con un atto soprannaturale. Al ragazzo turbato citai la frase di Seneca: “Dio agisce mediante mezzi a volte, sembrerebbe, assai lontani dal nostro concetto di divinità”.

   A dire il vero il lato oscuro dell’eternità avrebbe gettato ancora più di una volta un’ombra profonda sulle distese del mio tempo, portando grande confusione e disordine nelle mie giornate, ma nonostante ciò i fatti di quella notte biblica sono per me la striscia di luce più bella che ho visto nella mia vita.

8

   “E la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non possono spegnerla …” Nel Giorno dei Morti – a dispetto della nostra tristezza era una stupenda giornata di sole – dopo aver abbozzato innumerevoli versioni riuscii finalmente ad ultimare la traduzione. E come al solito in tali casi dopo aver terminato accesi la pipa, mi alzai dalla scrivania e cominciai a girare per la stanza. Trascorso qualche istante mi fermai presso la finestra. Scendeva la sera. Sui vetri della casa di fronte si riflettevano i rossi bagliori del sole al tramonto. Richiamai alla memoria le serate gerosolimitane. In Terra Santa non ci sono crepuscoli. Tra il giorno e la notte non c’è quella meravigliosa fase del lento imbrunire, quando la luce si offusca, diventa come leggermente annebbiata, si satura di grigio, cessa quasi del tutto e infine si riversa dolcemente nelle tenebre. In Terra Santa il giorno si spegne all’improvviso e la notte scende all’improvviso, e poi la notte all’improvviso finisce e all’improvviso inizia il giorno. Secondo la legge stabilita da Dio nel primo giorno della creazione, la luce è separata dalle tenebre, e le tenebre dalla luce. Tra la luce e le tenebre c’è una definitiva, irriducibile e invisibile barriera. “Ani Or haolam” – “Io sono la luce del mondo”. Non è una testimonianza. E’ la rivelazione di una sentenza pronunciata nei confronti dell’uomo e del mondo intero.

   In Terra Santa, nella patria terrena di Gesù di Nazareth, non ci sono crepuscoli.

(C) by Paolo Statuti



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