di Natalino Piras. (…) Santa Barbara è la patrona dei minatori di tutto il mondo. Ce ne sono ancora. Ce ne erano, in Sardegna. Qui da noi, nel cuore dell’Isola, quando si nomina la miniera, la memoria corre verso i luoghi più conosciuti: sos Enattos di Lula e “il talco” di Orani soprattutto. Quante storie, quante narrazioni, in prosa e in versi, di ordinaria fatica e di straordinarie tragedie. Le dodici, dieci, otto ore di lavoro in quei luoghi destinati a diventare parco e museo, fanno da sfondo al muoversi di individui e masse. Come se ancora scendessero e risalissero nel cuore della terra, corpi di fuliggine in vene d’argento, oppure il biancore del talco li ricoprisse: uomini, donne, pitzinnos e pitzinnas. Gente delle gallerie e delle laverie, del piccone e dei frantoi. Come se fossero ancora qui presenti, molto più che ombre.
Non ci sono però in questa memoria solo Lula, Orani e Bosa che è già più a lacana, confine, con terre forestiere. C’è anche Buggerru, nell’iglesiente. Non dista poi così tanto da Nuoro. Anzi, per la portata di queste storie è o dovrebbe essere nel cuore dell’Europa, Buggerru e le sue rivoluzioni spinte dalla fame, Mastru Juanne sia in montagna che in pianura. Per dirne una, non fu solo Maria Antonietta, regina di Francia, a irridere sulle urla del popolino affamato: “Non hanno pane, che mangino brioches”. Così prima del fatidico 1789, inizio della Rivoluzione che tante teste fece rotolare, quella di Maria Antonietta compresa. Anche a Buggerru ci fu la rivoluzione. Solo che a morire furono i poveri. Buggerru cimitero dei minatori! era un grido che risalì dalle bassuras campidanesi ai monti barbaricini. Imitando forse Maria Antonietta, agli inizi del secolo scorso, intervenendo alla camera su quanto era da poco successo nel paese minerario, il deputato Enrico Carboni-Boy parlò di odio sovversivo.
A Buggerru, appartenente allora al comune di Fluminimaggiore, tre minatori erano rimasti uccisi dai soldati perché manifestavano contro il caro prezzi e contro lo sfruttamento. Disse invece Carboni-Boy che i moti erano scoppiati per colpa della propaganda sindacale e non a causa degli aumenti che riguardavano il pesce, la carne e le verdure: tutte cose notoriamente poco o nulla consumate dagli operai. A quel tempo la miniera di Buggerru da dove si estraevano galena e calamina, apparteneva in toto alla “Societè anonime Malfidano”, a capitale francese. Era direttore l’ingegnere greco nato a Costantinopoli Achille Georgiades. Ci lavoravano circa 2000 persone, uomini ma anche donne e ragazzi. I salari oscillavano da 0,60 a 2, massimo tre lire al giorno. Un chilo di pane arrivava a costare quasi metà della paga. Per non dire del vino, dell’olio, del formaggio,dello zucchero e del lardo. Si doveva per forza acquistare, pena il licenziamento, dalla cantina-spaccio della stessa Malfidano. Si lavorava dalle 10 alle 12 ore, tutti i giorni della settimana, tutte le notti.
Questa era Buggerru. Anni fa, in diverse scuole del nuorese, si è presentato il progetto “Minatori e miniere” dell’Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell’Autonomia (Issra). Si tratta, avverte un volume a cura di Luisa Plaisant e Giuseppe Serri, di “un itinerario didattico di storia sociale”. In pratica, attraverso tutta una serie di documenti si ripropone la memoria de sa mina, la miniera. Agli inizi degli anni Settanta, girando per i paesi del Logudoro, della Barbagia, del Marghine-Planargia, del Campidano di Oristano e di quello di Cagliari, il “Gruppo Teatro Discorso” di Bitti portò in scena Quel giorno a Buggerru del nuorese Romano Ruju. Così attaccava, come uscendo dall’ombra, Bachisio Bandinu: “Io ero nella galena e nel carbone, dove si estrae il minerale, con gli eroi oscuri”. Sono versi del Canto generale di Neruda. A ripeterli è come risentire un io ripartito attraverso millenarie vicende. Come se ciascuno possa riappropriarsi delle anime de sa mina riandando a quel 4 settembre del 1904, quando a Buggerru i soldati del 42° fanteria spararono contro una folla inerme di minatori in sciopero per le assurde condizioni di vita e di lavoro. I morti si chiamavano Felice Littera, Giovanni Montixi e Giustino Pittau. Li cantò da subito, quasi li “attitò“, settant’anni prima di Romano Ruju, un altro grande nuorese, Bustianu Satta. Nelle sue Icnusie, così si rivolge ai morti di Buggerru: “Avanti, neri/Compagni mal sepolti! Oltre il sepolcro,/Giù!oltre la radice aspra dei monti”.
Bustianu si faceva interprete di un sentimento diffuso. Molta gente era scesa dalle montagne della Barbagia a lavorare nelle miniere dell’Iglesiente. Prima e dopo il fatidico settembre del 1904. Erano spinti dalla fame, dal bisogno, dalla mancanza di occupazione. Dice in una intervista l’ex minatore Pasqualino Porceddu: “La mia famiglia era originaria di Austis. Mio padre si trasferì in tenera età a Guspini alla fine dell’Ottocento con i genitori che speravano di lavorare in miniera. Nel paese d’origine mio nonno faceva il servo pastore e quando alcuni compaesani si trasferirono nella zona mineraria di Ingurtosu, decise di cambiare lavoro per sfamare la numerosa famiglia. Mio padre cominciò a lavorare in miniera nel 1911, all’età di quattordici anni”. La stessa età aveva Bachisio Zizi, che poi diventò dirigente bancario e scrittore, quando da Orune dovette andare a cavare pietre tra i minatori che costruivano Carbonia, al tempo del fascismo. Lavorava in ambiente ostile con i compaesani Puzzonedda, Pinnone, Battore e i fratelli Bavale.
Così si legge nel Filo della pietra, libro autobiografico: “L’indomani, un altro treno ci portò fino alla stazione di Carbonia, diversa da ogni altra per la polvere che abbruniva le cose e per la confusione. Tutt’intorno montagne di carbone trasportato su nastri scorrevoli; in cima alle laverie omini piccoli e neri si muovevano come folletti”. Erano passati trent’anni dall’eccidio di Buggerru e ancora sa mina era segno di degrado, di mancanza di solidarietà. Nonostante gli scioperi non si intravedeva speranza aurorale per la gente che risaliva dalle viscere della terra, nera in volto. Raccontava tziu Gosomo Daga, ollolaese trapiantato a Bitti, nel rione di Buntanedda, di quando fu anch’egli nella mina iglesiente. Raccontava per modo di dire. Erano ricordi che, si sentiva, gli davano dolore. Si incaponiva su una parola: “gavunnassu” che è poi “cavunnasciu” e che a tradurla con eufemismo dovrebbe significare “perbacco!”.
Si trova anche nel famoso Su gridu de su minadore di Pitanu Morette di Tresnuraghes, uno dei più grandi poeti in lingua sarda e che sperimentò anch’egli la condizione della mina. “Cantos nde benit dae Continente“, interroga Sebastiano Moretti, “tinti dai colori della fame?”. Tutta gente, questi continentales, capace “de niente”. Solo che tra questi c’è magari un parente, un amico, un compaesano di sorveglianti e superiori. Allora, “bastet chi siat bennidu oltremare/Ah! Perbacco, si devet occupare“. Sulla presenza dei continentali alla mina bisogna comunque fare chiarezza, oltre i pur giusti furori poetici di Moretti. Continentali erano i sindacalisti che animarono i moti di Buggerru: il piemontese naturalizzato carlofortino Giuseppe Cavallera e il romagnolo Alcibiade Battelli. Scrive Sandro Ruju in Miniere e minatori in Sardegna agli inizi dell’età giolittiana, che “in una realtà pure aperta e ricettiva qual era Buggerru persistevano certamente pregiudizi culturali e resistenze ideologiche soprattutto tra quell’ampia fascia di lavoratori che proveniva direttamente dal mondo contadino”. Non bisognava lavorare solo “pro sa entre“, per sfamarsi.
Il documento di Ruju riporta una lettera aperta di Battelli all’ingegnere Georgiades che, illusoriamente, gli era parso più umano di altri dirigenti e meres, padroni: “Ogni giorno, Ella può constatare de visu quanto sia paziente e umile la grande famiglia operaia che scava i tesori di questa miniera. In essa non c’è accordo, non c’è amore, non c’è solidarietà, non c’è fratellanza. Su essa pesano le invidie, i dissapori, le intolleranze”. Lo stesso quadro antropologico rileveranno quasi trent’anni dopo gli occhi e sos sentessos del ragazzo Bachiseddu Zizi di Orune. Alla mina iglesiente, come operaio, fu anche un altro dei nostri grandi poeti, il dualchese Salvatore Poddighe, autore de Sa mundana cummedia. Ad Iglesias il poeta maledetto si suicidò nel 1938 dopo una infinita battaglia a base di scomuniche e sequestri della Commedia il cui tema portante è l’iniqua divisione delle ricchezze, della fatica e del dolore tra gli uomini su questa terra. Pitanu Morette invece morì nel 1932 quasi dieci anni dopo la sua adesione al fascismo. Non cantava più minatores bensì di “Mussolini in Sardigna”.
Featured image Mussolini nella veste di direttore dell’Avanti! (1912-1914), quotidiano del Partito Socialista Italiano.
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