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Romanzo di una strage

Creato il 03 aprile 2012 da Povna @povna

A Romanzo di una strage la ‘povna si è avvicinata con non poca attesa. Perché l’argomento (come accennava parlando da GG) è di quelli che la coinvolge (doppiamente) sul piano biografico e personale (in entrambi in casi per una casualità che si è fatta radicamento urbano – circostanza, quest’ultima, confermata dal fatto che il cortile della questura di Milano, nel film, è stato realizzato nella sua vecchia scuola); perché piazza Fontana vuol dire poi, dopo Pinelli, Calabresi: e dunque Marino, Sofri, e il giudice e lo storico, e le condanne, e le sentenze, e le scelte, e tutte cose; perché la questione dei delitti di Stato l’ha studiata ai tempi in cui studiava il caso Moro e Sciascia, andandoci a parlare sopra in giro per il mondo, e scrivendoci pure un po’ di saggi sopra; perché, infine, Giordana per lei rappresenta un punto di non-ritorno, La meglio gioventù il film che ha contribuito ad aprire la porta alla sua vita degli anni complessi, Nicola la presenza benevola che la veglia di notte e la saluta la mattina, appena sveglia; per questi e molti altri motivi.
Così, con un carico di aspettative appena appena un poco alto, lunedì finalmente ha preso la sua bicicletta, e si è avviata pedalando al luogo dell’appuntamento, il cinema lontano nella piccola città. Ci è arrivata sicura di trovare il Giordana che conosce (e che non l’ha delusa, merita anticiparlo), e anche con una serie cospicua di letture. Pasolini, innanzi tutto; perché il suo “Romanzo delle stragi” (“Corriere della sera”, 1974; e poi scritti corsari, con il titolo con cui passa alla storia) è riferimento esplicito (nonché dichiarato) del titolo del film. Pasolini (vecchia ossessione di Giordana, fin dai tempi di Un delitto italiano) diventa così la lente più sicura per avventurarsi tra le pieghe di questo film complesso, e prima ancora della sua sceneggiatura. “Romanzo” significa infatti per prima cosa (ma non la più importante) una dichiarazione di competenze (Giordana non è storico, né aspira minimamente a esserlo); ma soprattutto invitare il pubblico a prendere coscienza che l’oggetto della narrazione non sono solo i fatti (per l’oggettiva impossibilità, su quegli stessi fatti nudi e crudi, già ancora in media res, a metter mano), ma il racconto dei medesimi. Un racconto che si dipana subito, con voci, narratori e punti di vista i più disparati e sovrapposti, tanto che fin dall’inizio sono le parole, non le cose, a rendersi protagoniste della storia. Eccolo, dunque, il romanzo; polifonico, alla Bachtin: nel quale tutto finisce e tutto viene ridigerito, in una storia che cambia e ancora cambia, continuamente. Tanto da non potere nemmeno coincidere con una forma di verità giuridica (che sarebbe comunque, è bene ricordarlo, cosa diversa), perché anche su quella, a partire da Pinelli, e poi giù giù, per arrivare a Moro (e il memoriale, e le lettere) e poi a Marino, Sofri, Pietrostefano e Bompressi, ci sono sole voci: che raccontano, e ritrattano, e insinuano, e proclamano, e denunciano, e spariscono, e ritornano. Senza pausa né razionalizzazione. C’è da meravigliarsi se un film del genere – che aspira anche a riportare un po’ di ordine nella percezione della memoria giovane – si dedichi a far capire non tanto quello che è successo veramente (che oramai, a processo scaduto, spetta comunque allo storico – come ricordava Ginzburg), ma l’origine e la natura di quel babelico sovrapporsi di voci? E’ davvero così poco condivisibile una scelta che fa – a quarant’anni di distanza senza colpevoli (come recitano delle didascalie precisissime, cui è affidato il compito di scandire il narrato in capitoli da raccontare) – del moltiplicarsi delle narrazioni, più ancora che dei fatti (nelle loro fattispecie ancora latitanti), il vero oggetto simbolico della storia patria?
Significa lavorare sull’immaginario: una chiave di lettura che del resto accompagna Giordana fin dai suoi esordi; e che diventa anche, forse, il modo per aiutare a passare un passato che non passa, raccontandolo con il distacco necessario per renderlo percepibile, trasmissibile, e, forse, compiutamente, storicizzabile” (le parole sono di Giovanni De Luna).
E proprio per questo, dunque, alla ‘povna sono sembrate di poco costrutto le polemiche che impazzano; e che (le pare) abbiano fatto fare la voce troppo alta persino a un giornalista con il quale di solito le accade di sentire consonanza, come Corrado Stajano. E non perché si senta di difendere il libro molto pseudo-storiografico (e che è in realtà soltanto complottista, fatto male, e tanto brutto) da cui il film dichiara di essere (molto) “liberamente tratto”, anzi (e su questo valgono le osservazioni di Sofri nel suo instant-book 43 anni, ché pure mostra anch’esso di non comprendere – ma come potrebbe essere altrimenti – il discorso di Giordana sull’immaginario). Ma perché di questo libro (dal quale pure prende alcuni spunti, perché ci possono essere suggerimenti, più o meno condivisibili, anche in uno studio fatto male) Romanzo di una strage fa in realtà soprattutto strame in maniera sottile e intelligente; citandone soltanto una parte (la tesi che a piazza Fontana ci sia stata una doppia bomba), e mettendola in un contesto deprivato, per esplicita scelta di regia, dall’alto, di una forma di definitiva verità.
Il resto si chiama dibattito. Quello che in Italia su questi temi, questo periodo storico, queste voci, protagonisti, fatti manca. Sostituito dal romanzo. Che è in definitiva il motivo vero e ultimo che rende (un po’ come fu, per il caso Moro, Buongiorno, notte) il film di Giordana solo e tanto necessario.


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