Discendente, un po’ alla lontana, di quel cinema d’impegno civile, sottogenere italico che avuto i suoi migliori rappresentanti in Francesco Rosi ed Elio Petri, Romanzo di una strage, regia e sceneggiatura (quest’ultima scritta insieme a Sandro Petraglia e Stefano Rulli) di Marco Tullio Giordana, è un film che ha l’indubbio merito di ricostruire per il grande schermo, con scrupoloso piglio documentaristico, un periodo buio del nostro paese, scegliendo uno stile a metà strada tra il cronachismo proprio di un’inchiesta giornalistica e la melodrammaticità tipica di un’opera lirica, come evidenziato dalla suddivisione in capitoli, otto, ognuno con un proprio titolo.
Avvolto in una cupa fotografia (Roberto Forza), tragicamente simbolica, il film non poggia, come le opere dei suoi citati predecessori, su slanci propriamente ideologici o tentativi d’analisi sociologica, preferendo una rappresentazione lineare e “naturale” nella narrazione dei fatti (la pellicola si apre e si chiude con due uccisioni, rispettivamente quella dell’agente Antonio Annarumma e del commissario Calabresi), disseminando indizi sia a nella fase precedente che in quella successiva alla Strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969, ore 16:37, Banca Nazionale dell’Agricoltura, 17 vittime, 80 feriti), punto di partenza della “strategia della tensione”, tra clamorose scoperte, intrighi di potere e depistaggi vari, un triste gioco a rimpiattino con rimpallo delle responsabilità.
Il coinvolgimento di noi spettatori è dato dall’amara constatazione che pur nella conoscenza e nell’accertamento da parte della giustizia di movente ed esecutori, morali e materiali, la punibilità non sia possibile, proprio in applicazione della legge (la non processabilità dei colpevoli, in quanto già assolti per il reato di strage con sentenza passata in giudicato), l’ambiguità beffarda del sistema, evidenziata ulteriormente dalla volontà d’incentrare la narrazione su tre figure essenziali, ognuna espressione di un intimo disagio, causato da influenze esterne, nell’applicazione coerente dei propri ideali: Luigi Calabresi, commissario di P.S., vice responsabile della squadra politica della Questura di Milano (Valerio Mastandrea, efficace e misurato), l’anarchico pacifista Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino, particolarmente intenso) e l’onorevole Aldo Moro (Fabrizio Gifuni, perfetto nel suo mimetismo), al tempo Ministro degli Esteri, figura dolente, quasi cristologica nel farsi tutt’uno con il destino del proprio paese, accettando il tradimento di uno Stato-Giuda, che al consolidamento di una democrazia preferisce la propensione verso derive autoritarie, la presa e la gestione del potere, tra agi e privilegi, rinnegando la salvaguardia e la valorizzazione della dignità di ogni essere umano in quanto tale.Pudico nella sua antispettacolarità (la scena della strage, fuori scena, con la drammaticità conferita dall’assenza di luce e nello strazio dei funerali delle vittime, sottolineato dalla Lacrimosa di Mozart in sottofondo), attento alla capacità interpretativa degli attori (da evidenziare, in un cast estremamente valido, Michela Cescon, foto, nel ruolo della moglie di Pinelli), il film si sostanzia come una lucida anamnesi volta ad individuare origini e natura del cancro che ha colpito società ed istituzioni e, soprattutto, le sue estese metastasi, dove la diagnosi può rinvenirsi nelle parole espresse da Luigi Lo Cascio nella parte del giudice Ugo Paolillo : “La giustizia è una cosa e le persone che dovrebbero attuarla un’altra”.A tutti noi, chi in quegli anni c’era e li ha vissuti, chi, come lo scrivente, era appena venuto al mondo, ai giovani d’oggi, Giordana instilla la voglia d’apprendere e di capire, facendo sì che diventino nostre le parole espresse da Pier Paolo Pasolini (Corriere della Sera, 14 novembre 1974, Che cos’ questo golpe?): “Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969 (…) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.