Discendente, un po’ alla lontana, di quel cinema d’impegno civile, sottogenere italico che avuto i suoi migliori rappresentanti in Francesco Rosi ed Elio Petri, Romanzo di una strage, regia e sceneggiatura (quest’ultima scritta insieme a Sandro Petraglia e Stefano Rulli) di Marco Tullio Giordana, è un film che ha l’indubbio merito di ricostruire per il grande schermo, con scrupoloso piglio documentaristico, un periodo buio del nostro paese, scegliendo uno stile a metà strada tra il cronachismo proprio di un’inchiesta giornalistica e la melodrammaticità tipica di un’opera lirica, come evidenziato dalla suddivisione in capitoli, otto, ognuno con un proprio titolo.
Avvolto in una cupa fotografia (Roberto Forza), tragicamente simbolica, il film non poggia, come le opere dei suoi citati predecessori, su slanci propriamente ideologici o tentativi d’analisi sociologica, preferendo una rappresentazione lineare e “naturale” nella narrazione dei fatti (la pellicola si apre e si chiude con due uccisioni, rispettivamente quella dell’agente Antonio Annarumma e del commissario Calabresi), disseminando indizi sia a nella fase precedente che in quella successiva alla Strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969, ore 16:37, Banca Nazionale dell’Agricoltura, 17 vittime, 80 feriti), punto di partenza della “strategia della tensione”, tra clamorose scoperte, intrighi di potere e depistaggi vari, un triste gioco a rimpiattino con rimpallo delle responsabilità.


A tutti noi, chi in quegli anni c’era e li ha vissuti, chi, come lo scrivente, era appena venuto al mondo, ai giovani d’oggi, Giordana instilla la voglia d’apprendere e di capire, facendo sì che diventino nostre le parole espresse da Pier Paolo Pasolini (Corriere della Sera, 14 novembre 1974, Che cos’ questo golpe?): “Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969 (…) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.