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“Romanzo di una strage”: Memoria, dramma e costruzione psicologica dei personaggi

Creato il 30 maggio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

romanzo di una strage

Film coraggioso, perché, nonostante  quarantacinque anni ci separino da piazza Fontana, la ferita è ancora lì, e fa male. Ricorda poi, la narrazione di allora, tutto il decennio successivo e la deriva terroristica, di cui la strage del ’69 fu il primo drammatico atto.  Nel ’74 Pier Paolo Pasolini diceva: “Io so, ma non ho le prove”; nel 2012,  la suggestione del suo testo,  Il romanzo delle stragi,  ha ispirato il film di Marco Tullio Giordana, trasmesso finalmente in televisione il 28 maggio, quarantesimo anniversario della strage della Loggia di Brescia.

Di Pasolini, nell’80, Giordana faceva dire al protagonista di Maledetti vi amerò (Flavio Bucci): “Prima di morire era un irrazionale populista di destra, poi dopo morto, è diventato un compagno della madonna!”. Non si sapeva ancora quanto le pagine di Pier Paolo fossero profetiche, quanto sapessero guardare davvero a quel futuro che gli è stato negato.

Giordana dice di aver trovato lo spunto del suo film anche nella totale ignoranza dei giovani, che nulla sanno di quegli anni, ed ha perfettamente ragione. Per la descrizione del commissario Calabresi (Valerio Mastandrea), così sobrio e dai modi così pacati, dev’essere stato fondamentale, poi,  per il regista averlo incontrato da giovane mentre occupava il Berchet, liceo milanese tra i più roventi. Lo descrive come un uomo  serissimo ed elegante, che non aveva l’aria da poliziotto e trattava gli studenti con gentilezza.

Tutta la vicenda si costruisce sulla riuscita  psicologica del suo personaggio, e su quella di Pinelli (Pierfrancesco Favino), riscattati per la prima volta dal simbolo. E poi c’è Aldo Moro, che, sempre ripiegato su se stesso, sembra presagire il disastro incombente dell’Italia: lucido e inascoltato, consapevole delle infiltrazioni dell’estrema destra nelle istituzioni italiane, a soli due anni  dalla dittatura greca dei colonnelli.

Il commissario è rappresentato, fin dalle prime scene, con volto ed espressione malinconici, tanto che il figlio, Mario Calabresi, ha lamentato la mancanza di un sorriso, di una battuta, dell’abitudine a  sdrammatizzare, che invece appartenevano a suo padre. E la moglie Gemma dice di non averlo riconosciuto: “Gigi era romano, in tutti i sensi; era spiritoso. Nel film invece è duro, tutto d’un pezzo, non sorride mai”.

romanzo di una strage

È vero che Calabresi-Mastandrea non sorride: lo si vede solo, mentre fuma alla scrivania, con poca luce  e l’aria sconsolata. Ma è proprio la desolazione che voleva rendere Giordana, l’isolamento, l’abbandono da parte delle istituzioni; della prefettura, per esempio, che pare abbia alimentato la campagna di diffamazione con la falsa notizia di un Calabresi addestrato dalla CIA, lasciandolo in pasto all’estrema sinistra. È ombroso fin dalle scene iniziali, ma siamo in pieno autunno caldo, e da subito nel film assistiamo all’omicidio del poliziotto Antonio Annarumma, un mese scarso prima di piazza Fontana.

Del commissario vengono raccontati gli ultimi due anni e tre mesi, dal dicembre ’69, fino alla sua morte, il 17 maggio del ‘72. Dopo piazza Fontana,  la morte di Pinelli, la campagna denigratoria e il linciaggio morale di Lotta Continua. Lotta Continua, il quotidiano,  titola addirittura la notizia della sua uccisione “Giustizia è fatta”. Mentre L’Espresso nel ’71 pubblica un appello che sostiene le responsabilità di Calabresi per la defenestrazione di Pinelli. Lo firmano Umberto Eco, Eugenio Scalfari, Camilla Cederna, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Alberto Moravia, lo stesso Pier Paolo Pasolini,  Federico Fellini, Paolo e Vittorio Taviani, e tanti tanti altri ancora. Cosa sono stati poi questi due anni e tre mesi, a Milano, quando Calabresi era addetto alla squadra politica della questura! Nel ’70 le prime rivendicazioni delle BR, scontri di piazza sanguinosi, fino alla morte di Feltrinelli, che precede di pochi giorni quella dello stesso Calabresi. Ma come avrebbe potuto sorridere il commissario in un film che in due ore sintetizza tensioni e morti collettive, insieme alla sua tensione personale?

Sorride di più invece Giuseppe Pinelli, reso da subito come un onesto sostenitore della non violenza. Padre marito e compagno irreprensibile; solare e insieme riflessivo, abbastanza sicuro di sé, certo non incline al suicidio. Persino un po’ troppo fiducioso, perché è lui, a differenza di Valpreda, che accetta nel circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, un tipo ambiguo, Nino Sottosanti, neo-fascista fino a tre mesi prima. Si fida anche di Calabresi e lo segue in motorino verso la questura. Non ha niente da nascondere Pino Pinelli, è sereno, non sospetta che quel tragitto tra le strade milanesi sarà l’ultimo della sua vita.

“Anarchia non vuol dire bombe, ma giustizia amor libertà”, canta la Ballata del Pinelli. Ma anche:

“Calabresi e tu Guida assassini
che un compagno ci avete ammazzato
l’anarchia non avete fermato
ed il popolo alfin vincerà”.

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Ecco come Calabresi viene accostato al questore Guida (odiosissimo personaggio, che ricorda con nostalgia il suo lavoro al confino di Ventotene e pensa di trattare gli anarchici con gli stessi metodi fascisti di allora); Calabresi diventa il simbolo di un’eversione che trama a danno della democrazia; Pinelli  dell’eroe morto per la libertà, da rivendicare negli anni futuri.

L’omaggio migliore di Marco Tullio Giordana nei confronti di Calabresi e Pinelli è quello di restituire loro una grande umanità e soprattutto di ricordare il loro reciproco rispetto. Bella la sequenza in cui l’anarchico regala al commissario il suo libro preferito, L’antologia di Spoon river. Aveva studiato poco Pinelli,  eppure era un appassionato lettore. Anche Calabresi leggeva molto: lo ha fatto fino a pochi minuti prima di essere ucciso, riprendendo il libro su cui si era addormentato la sera prima. Nel film ricambia il regalo offrendo a Pinelli Mille milioni di uomini. Parla di dittatura e il Pino risponde che non gli interessa, tanto lui è contrario a qualunque tipo di  violenza.

Nella realtà lo scambio dei libri avvenne forse diversamente. Pare che a  Natale del ’68 Calabresi abbia regalato il libro a Pinelli insieme al commissario capo dell’ufficio politico milanese Antonino Allegra e che Pinelli ne fosse orgoglioso, tanto da ricambiare il dono l’estate successiva proprio con la sua lettura preferita. Ad ogni modo, quello scambio c’è stato, a testimoniare una stima di fondo da mondi politicamente contrapposti. La divisione, infatti, si è poi sclerotizzata dopo la loro morte, fino a dividere le famiglie, che nel 2009 il presidente Napolitano ha fatto incontrare in una cerimonia di elevata commozione.

Pinelli e Calabresi, entrambi eroi inconsapevoli di un’Italia che li ha eletti a simbolo di lotte travestite da difesa democratica. Anni torbidi, di un popolo sfortunato che aveva bisogno di eroi,  ma anche delle sue vittime.

Romanzo di una strage è un film di cui non si perde neanche un frammento. Convince poco la  conclusione sull’ipotesi delle due valigie, del doppio esplosivo e di duplici mandanti. Anche perché se si vuole raccontare ai giovani una realtà che non conoscono è meglio non confonderli. Per i meno giovani, infastidiscono le chiusure stravaganti, in  una vicenda che ha coinvolto tutti: un dolore (doppio, quello, sì) per il dramma in sé e per  ciò che ha lasciato di inconcluso.

Per tutti rimane la fastidiosa sensazione di non aver mai avuto, nella nostra storia, un solo momento di trasparenza e di affidabilità politica. Lo sapevamo già, ma ogni tanto ci piacerebbe illuderci e Romanzo di una strage invece è una doccia di realtà che fa parecchio male. Non ci si può sottrarre, tuttavia, a questa scomoda consapevolezza, né all’obbligo della memoria, per quanto inquietante sia.

Margherita Fratantonio


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