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Il documentario presenta le voci di cinque individui nordamericani - il solo nome conosciuto è quel Geoffrey Cocks di The Wolf at the Door (chi segue il blog sa già dunque cosa aspettarsi) – i quali spiegano le loro teorie interpretative sul film alla ricerca ossessiva di dettagli e prove a lor dire inconfutabili mentre il film viene sezionato, zoomato, replicato, rallentato e riprodotto avanti e indietro. Sì, siamo invitati a casa di cinque teorici del complotto. Enter at your own risk.
Shining diventa così un'allegoria dell'Olocausto, un'allegoria del genocidio degli indiani d'America, un'elaborazione del senso di colpa di Kubrick per aver simulato l'allunaggio del 1969...
Diretto con brillante arguzia da Rodney Ascher, che sceglie di non mostrare mai gli intervistati né di indicarli con il loro nome se non la prima volta, il documentario risulta da subito una oppressiva e verbosissima sequela di ragionamenti (esito a dire vaneggiamenti per rispetto) che non lasciano respiro e in un paio di momenti causano le vertigini.
Ci sarebbe da inquietarsi, come nel bellissimo e di gran lunga superiore Resurrect Dead (vi scongiuro, guardatelo), ma in questo caso il grado di assurdo è così alto che la pressione psicologica delle varie interpretazioni finisce per esplodere sovente in un sorriso. Il mio momento favorito è quando, nell'interpretazione "allegoria dell'Olocausto", le dissolvenze finali in avvicinamento sulla fotografia di Jack Torrance causano il posizionamento del ciuffo di capelli della stempiatura di Nicholson sul suo labbro superiore, così che i capelli diventano i baffetti di Hitler. Sublime.
L'unico momento in cui Ascher interviene è nel finale, quando candidamente chiede al più infervorato dei vari "critici" (virgolette d'obbligo): "Perché Kubrick avrebbe dovuto inserire dei simboli così nascosti?" La risposta: "Per aprire delle porte. O anche per intrappolare persone come me. Sono incastrato dentro Shining da sempre."
"Non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo", diceva Anaïs Nin.
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